Non credenti, così cambia il dialogo

di Enzo Bianchi

L’importanza che papa Francesco attribuisce al dialogo all’interno della Chiesa è emersa fin dal suo primo apparire dalla loggia di San Pietro: quell’invito a «camminare insieme, vescovo e popolo» e, più ancora, quel conferire persino alla benedizione papale una dimensione dialogica – con la richiesta di essere benedetto prima di benedire – hanno inaugurato uno stile che è stato poi mantenuto nella creazione del consiglio dei cardinali, nelle modalità di preparazione e svolgimento del sinodo, anzi, dei due sinodi dei vescovi sulla famiglia, nelle Gmg a Rio come nelle visite pastorali alle parrocchie romane o alle varie chiese locali nel mondo.

Anche nei confronti delle altre Chiese cristiane il dialogo è apparso subito una chiave di lettura privilegiata per comprendere le modalità di approccio di papa Francesco: dai frequenti incontri con il patriarca ecumenico Bartolomeo – a Gerusalemme, in Vaticano, a Istanbul – alla visita inattesa alla comunità pentecostale di Caserta, al prossimo incontro con la comunità valdese di Torino, le occasioni di dialogo ricercate e perseguite dal papa non si contano. E analogamente Francesco si è comportato con gli esponenti di altre religioni.

Ma ancor più sorprendente è stata la sua apertura al dialogo con chi fa riferimento a un universo razionale e scientifico e si considera estraneo a una dimensione religiosa. Molti sono rimasti sorpresi da questo dialogo intessuto con personalità “laiche” sensibili alla figura di Gesù Cristo e al suo Vangelo, eppure sempre critiche nei confronti degli assetti della Chiesa e del suo messaggio morale. Laici che perlomeno hanno il pregio di discostarsi da tanti altri che vorrebbero nel papa un interlocutore teologo-filosofo su temi che la Chiesa però non legge più come cinquant’anni fa. Per costoro sarebbe meglio poter dialogare con rigoristi e tradizionalisti perché la teologia di questi ultimi è rimasta quella da loro conosciuta prima di allontanarsi dalla Chiesa e quindi ancora impressa nella loro mente. Sovente sono anticlericali
che guardano con rispetto e invidia all’istituzione ecclesiastica
millenaria, sedotti da quello splendore e non certo dal Vangelo o da Gesù Cristo. E poi ci sono i laici con una posizione di “sinistra da salotto”, che ritengono di stare dalla parte dei deboli ma al contempo giudicano papa Francesco un uomo con una visione su temi come il lavoro, l’inequità sociale, l’ingiustizia patita dai poveri, ferma alla seconda metà del secolo scorso, prima che fosse introdotta e adorata anche da loro l’ideologia del mercato.

Sì, conosciamo e sentiamo queste voci “nostrane”, ma gli orizzonti di papa Francesco sono ancor più ampi: che dire infatti del suo desiderio di recarsi «in Cina anche domani» o del tenore dei suoi discorsi al Parlamento europeo o al Consiglio d’Europa o di fronte alle autorità politiche turche o, addirittura, della disponibilità, purtroppo nemmeno recepita, a interloquire perfino con l’Is pur di porre fine ai barbari massacri?

Anche in questo aspetto così cruciale nel mondo lacerato dei nostri giorni papa Francesco ha preso sul serio l’appello del Concilio circa «il rispetto e l’amore per gli avversari ». Così recita Gaudium et spes: «Il rispetto e l’amore deve estendersi pure a coloro che pensano od operano diversamente da noi nelle cose sociali, politiche e persino religiose, poiché con quanta maggiore umanità e amore penetreremo nei loro modi di vedere, tanto più facilmente potremo con loro iniziare un dialogo » (GS 28). Umanità, modi di vedere, pensare e operare diversi, dialogo, amore non sono vuote parole, ma attuazione contemporanea del messaggio evangelico, sequela e imitazione del comportamento di Gesù, che andava incontro a tutti: greci e romani, donne cananee e samaritane, pagani e pubblicani… L’atteggiamento di papa Francesco ci ricorda ogni giorno che il dialogo è la via umana, condivisa dunque da tutti, per costruire insieme un senso; è un metodo, uno stile di vita che diventa cammino fatto insieme, ricerca condivisa della verità che si fa storia. Questo atteggiamento, che per i cristiani deriva dal credere che ogni essere umano in quanto tale è a immagine e somiglianza di Dio, crea relazioni ispirate a quella mitezza che per Paolo VI «è carattere proprio del dialogo» (Ecclesiam suam).

Il dialogo è spazio sostitutivo della violenza elaborato mediante quella facoltà solamente umana che è la parola e di cui, a partire da Socrate, non mancano certo esempi nelle tradizioni culturali anche lontane dal cristianesimo. Il dialogo dunque va praticato come via di costruzione di un mondo che crede alla forza della parola e rifiuta di affidarsi alla parola della forza. E in questa pratica quotidiana le parole e i gesti di papa Francesco hanno assunto una esemplarità rara. A papa Francesco è caro il dialogo quanto è cara la parresìa: nel dialogo parla chiaro e sa anche denunciare il male sul quale regna un silenzio complice ma assodato: basti pensare alle sue parole sul genocidio degli armeni e delle altre minoranze cristiane nell’Impero ottomano un secolo fa. Sì, anche in tema di dialogo con i non credenti, tutto si può dire del pontificato di papa Francesco tranne che non sia capace di una teologia solida, di un pensiero che regga il confronto con l’intelligenza laica e di una franchezza che non lo rende né debole né strategico.

Forse la sua non è teologia da aule di università, da convegni accademici o da manuali sistematici, ma è teologia come la prefigurava il Vaticano II, attenta agli uomini e alle donne del nostro tempo, alle loro gioie e alle loro speranze, alle loro tristezze e alle loro angosce, una teologia secondo l’adagio patristico per cui “se preghi sarai un buon teologo”, una teologia capace di “trasmettere le verità contemplate”, fatta “in ginocchio” prima di essere elaborata a tavolino, una teologia “pastorale” dove l’aggettivo è accrescitivo, non riduttivo.

E qui assistiamo a un duplice paradosso: da un lato lo stile dialogico del magistero di papa Francesco desta perplessità in alcuni settori della Chiesa cattolica, a disagio con questo atteggiamento in costante “uscita”, aperto a venti non sempre favorevoli. Dall’altro la ricezione del messaggio di papa Francesco da parte degli ambienti non segnati da un’appartenenza religiosa appare sorprendentemente schizofrenica: l’opinione laica sembra infatti ben disposta a interloquire su tematiche filosofiche o persino spirituali, concedendo una patente di credibilità dialogica a riflessioni sulla vita, la morte, l’aldilà, i valori universali… mentre appare refrattaria, distratta, non reattiva quando il papa affronta tematiche molto più “laiche”, come il sistema economico-finanziario disumano, la dignità di ogni persona a cominciare dai poveri, i migranti, i profughi, il commercio delle armi, le strutture e gli assetti politici e sociali che alimentano ingiustizie: i silenzi che hanno accolto i suoi appelli contro la Terza guerra mondiale in atto o contro la persecuzione delle minoranze, cristiane o meno, sono sintomi preoccupanti di un dialogo che ha timore di affrontare frontalmente questioni imbarazzanti per i rapporti di forza esistenti nel mondo. Ma il dialogo autentico non ha come finalità i massimi sistemi: da quelli prende le mosse per chinarsi sul bene più prezioso che ci è dato di possedere e che a tutti va garantito, la vita umana.

In ogni caso siamo convinti che non è dall’audience che si può giudicare il magistero di un papa, ma solo dal confronto con il Vangelo. E papa Francesco vuole essere e appare un servo solo del Vangelo che non adula i grandi poteri di questo mondo né cerca la loro protezione. Scaldiamoci a questo fuoco finché arde perché, temo, presto tornerà l’inverno, la stagione abituale della Chiesa in cammino verso l’estate del regno di Dio promesso da Gesù.

(“L’avvenire”, 28 aprile 2015)

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