Lo storicismo moderno italiano tra cultura e politica
La domanda che sta all’origine di questo intervento è: perché non riusciamo più a pensarci storicamente? Questa domanda negli ultimi anni ci si è presentata con crescente insistenza.
Fino agli anni settanta dello scorso secolo le cose stavano diversamente. In qualsiasi forza o area politica si militasse o cui si facesse riferimento (i partiti erano la via pressoché esclusiva, o per lo meno la principale, per la partecipazione politica), ciascuno era consapevole di come la storia del proprio movimento fosse intrecciata con la storia del paese e con le vicende delle altre formazioni e tendenze e che, benché si potesse provenire da tradizioni e culture diverse, unico era il terreno d’incontro e di confronto. I tratti particolari di ciascuna «subcultura» trovavano momenti di mediazione nell’università, nella stampa, nella politica stessa e in quegli intellettuali liberi, presenti dappertutto, che facilitavano le convergenze. Quest’universo, a sua volta, costituiva la proiezione e la rappresentazione di un mondo reale le cui ramificazioni politiche, sociali e ideali attraversavano la società in ogni ganglio, a cominciare dalle grandi organizzazioni di massa politiche e sindacali, con infinite modulazioni e sfumature e con una crescente possibilità d’incontro, di articolazione e di scambio.
Non era un modello stabile e perfetto. Al di là delle profonde tensioni che negli anni sessanta e settanta attraversarono il paese, rimaneva irrisolto il problema del ricambio della classe di governo, cioè della reciproca e definitiva legittimazione delle forze politiche. Era una questione difficile da affrontare durante la guerra fredda, ma anche su questa si stava lavorando e, nel complesso, la nostra democrazia, ancorché incompiuta, mostrava grandi tratti di apertura e di inclusività.
A distanza di una generazione tutto ciò si è dissolto. Sulle ragioni di questo cambiamento diremo qualche cosa in conclusione ma ora ci interessa soprattutto sottolineare la centralità che in quella fase aveva la riflessione sulla storia, sia come orizzonte del quotidiano sia come lingua comune dell’agire sociale. Al contrario, oggi l’agire sociale è largamente regredito a forme più aggressive e lato sensu faziose ed è immerso in un eterno presente nel quale i riferimenti al collettivo e al paese appaiono spesso insignificanti e retorici.
Da un punto di vista critico, la domanda si può porre così: è definibile questa modalità dell’approccio collettivo alla storia in termini storico-critici, tenendo conto che non si tratta di un compiuto sistema concettuale ma nemmeno di un semplice stato d’animo? Ovvero, è possibile ricostruire le forme e i tratti salienti di una vicenda intellettuale, politica e morale che ha attraversato la storia d’Italia caratterizzandola fortemente, con la sua presenza come anche con la sua latenza?
Nei termini più generali, alla base di questo atteggiamento vi era la disponibilità della cultura italiana alla riflessione sulla storia, tratto abbastanza specifico che dall’Umanesimo a oggi – con figure come Machiavelli, Vico, De Sanctis, Croce, Gramsci – ha caratterizzato il pensiero italiano. Al suo interno però è possibile individuare un percorso più compatto dal punto di vista tematico e cronologico, cioè quel filone di pensiero e d’azione che è stato centrale nel Risorgimento e nella formazione dello stato unitario e che aveva rifondato su nuove basi la cultura nazionale.
Chiameremo questo filone storicismo moderno italiano, dove i due aggettivi specificano una definizione che, in buona sostanza, proprio a questo movimento fu data da Croce – e, in modo convergente, da Gramsci – negli anni trenta del Novecento . Ora, lo storicismo moderno italiano, che dunque esisteva prima che la critica gli desse un nome, ha una serie di caratteristiche che possiamo qui elencare sommariamente: a) nato nell’ambito della riflessione filosofica, non è un sistema concettuale ma piuttosto una linea di pensiero che compare con una certa continuità nell’Ottocento e nel Novecento italiani; b) incentrato sulla riflessione storica, non è una metodologia critica quanto una concezione pratica che assume la storia come necessario orizzonte dell’azione; c) è orientato dall’idea di libertà e dall’etica della responsabilità quali derivano dall’Illuminismo e dalle concezioni liberali e democratiche dell’Occidente moderno; d) è altresì orientato da una concezione laica e non confessionale, ancorché compatibile con concezioni cristiane, all’origine, per motivi politici, prevalentemente non cattoliche; e) è europeo nel senso che fin dal suo sorgere dà per intesa la comune civiltà e cultura europea; f) ancorché nato in ambito borghese liberale, è stato in grado di attrarre, con esiti rilevanti, una parte significativa del marxismo italiano e aspetti non secondari della cultura cattolica; g) tendenzialmente repubblicano, come movimento politico e culturale si acclimatò nel liberalismo monarchico e costituzionale dell’Ottocento, contribuendo poi fortemente al repubblicanesimo novecentesco; h) ha accompagnato, e in certo senso orientato, i due periodi di maggior sviluppo civile e politico del paese nell’Otto e nel Novecento: dapprima il Risorgimento e la costruzione dello Stato unitario, specie nella politica della Destra, poi ha avuto una forte ripresa negli anni venti in funzione antifascista, dettando le linee essenziali della Costituzione e della formazione della nuova Italia; i) è stata l’unica cultura nata e sviluppata allo scopo di dare un senso al progetto nazionale italiano.
Di seguito tenteremo di descriverne per sommi capi i tratti essenziali.
Rivoluzione e Stato
Ci sembra difficile, in questa ricostruzione, non partire da Vincenzo Cuoco e dalla sua meditazione sulla rivoluzione e sulla storia. Egli, che morì nel 1823, non appartenne al movimento risorgimentale, ma la sua solitaria, pessimistica e lucida riflessione sulla rivoluzione napoletana del 1799 e tutti gli altri suoi scritti incisero nel veicolare nel movimento risorgimentale un’idea ben diversa del processo rivoluzionario rispetto a quella propalata dal giacobinismo, dal soggettivismo dantoniano, dal terrorismo robespierriano. Non evento totalizzante e risolutivo, la rivoluzione era per sua natura destinata a modificare solo alcuni aspetti dei rapporti di forza e di potere presenti nella società, lasciandone intatti la gran parte. Urge nella rappresentazione di Cuoco – e non è qui il caso di discutere quanto vi fosse in lui del pensiero di Giambattista Vico – l’esigenza della storia e della politica razionale, dei tempi lunghi della conoscenza storica e geografica, di una ricostruzione realistica delle condizioni di vita e di lavoro della società, lì dove il mito rivoluzionario tendeva a far scomparire nell’attimo palingenetico la vita concreta degli uomini.
Tutt’altro che controrivoluzionario – semmai per qualche verso avvicinabile a Tocqueville –, il pensiero di Cuoco teneva conto delle condizioni dell’Italia e del fatto che era infruttuoso e irrilevante, se non addirittura rischioso e controproducente, pensare ancora una volta a una rivoluzione per imitazione (una «rivoluzione passiva») ma che erano le concrete possibilità di cambiamento a dover essere scandagliate in attesa che nuovi eventi aprissero nuove strade. (E, aggiungiamo, a noi il suo pensiero appare ancor più significativo oggi, dacché un nuovo ’89 ha ulteriormente contribuito a smantellare i fasti rivoluzionari inaugurati due secoli prima.) Se la sua riflessione non sembra aver avuto grandi esiti nel breve periodo, fu dopo il fallimento dei moti del 1848 che essa trovò nuovi spazi – lì dove vi furono menti capaci d’intendere – tra i rivoluzionari che, con una maggiore dose di pessimismo ma una più lucida e consapevole determinazione, sopravvissero fisicamente e politicamente all’ondata repressiva che accompagnò la sconfitta.
Tra costoro vi furono i tre maggiori eroi della sintesi che stiamo imbastendo: il politico Silvio Spaventa, suo fratello Bertrando Spaventa, filosofo, e lo storico della letteratura Francesco De Sanctis. Uomini di grande intelligenza e cultura, per circa un quarantennio condivisero, almeno nelle grandi linee, riflessioni politiche e strategie d’intervento. Sia prima sia dopo la rivoluzione essi tesero a valorizzare gli aspetti più progressivi del movimento in atto, ma soprattutto inventarono un modo nuovo di pensare all’Italia, legandoci a sé con un debito non ancora estinto.
Abbiamo rinvenuto la prima manifestazione di questo nuovo sguardo sull’Italia in uno scritto giovanile di Silvio Spaventa dei primi anni quaranta, noto per una riduzione di Croce ; a questo articolo (l’Introduzione di una rivista liberale diretta dallo stesso Spaventa, spenta sul nascere dalla censura borbonica) è opportuno dedicare una riflessione perché mostra l’ampiezza dell’orizzonte concettuale e l’acume della visione. Spaventa si chiedeva retoricamente se fosse vera la sentenza di un ardito filosofo moderno il quale, per una male immaginata teorica, attentando alla fama di Dante e di Galilei, si è piaciuto di fare di questa nostra decadenza letteraria e politica una necessità, una emanazione della spaventevole idea del tanto predicato Assoluto, largheggiando col Settentrione di un vastissimo monopolio di grandi intellettuali e materiali negozi. L’eclettico francese, alla coda della scuola di Berlino, è arrivato a dire, che nel Mezzogiorno, dove forse anche gli aggrada di rappresentare la sua immobile idea dell’Unità, mal si saprebbe trovare attitudine propria alla civiltà moderna, oggi in fiore più o meno in tutto il Nord, in cui vede obiettivata la opposta idea del multiplo, attiva, rivoluzionaria e ricalcitrante con la prima.
Il filosofo moderno, l’eclettico francese era, con buona probabilità, François Guizot, storico ugonotto e figura politica di spicco della monarchia di Luigi Filippo, che dalla lezione di Hegel (la «scuola di Berlino») aveva tratto la difficoltà del liberalismo ad acclimatarsi nei paesi cattolici , aggiungendovi di suo un tono e un linguaggio propri di un protestantesimo militante anche in linea con la politica francese verso l’Italia . Spaventa coglieva dunque con istinto sicuro uno dei nodi più cogenti e densi di conseguenze di quella discussione, cioè il rapporto tra la Riforma e il liberalismo, variegato moto di emancipazione che percorre la modernità, ed è notevole che egli rispondesse a quell’obiezione con un’elaborazione concettuale degna di rispetto. La sua polemica non riguardava l’assunto ma la conseguenza che meccanicamente da quell’assunto si voleva far discendere.
Così tutti gridano: è Lutero che ispira Descartes; la filosofia moderna viene dal protestantesimo. E ciò può essere vero sino ad un certo punto. Ma, perché noi non abbiamo avuto protestantesimo, non avremmo diritto alla filosofia moderna? Sarebbe una conseguenza stranissima nell’ordine retto delle cose umane. Noi ci riserberemo di dimostrare che tutto il movimento filosofico, che oggi agita popoli interi, è venuto ugualmente operato nel nostro paese dall’individuo filosofo, letterato, pensatore. Però là quel movimento prende forma di organizzazione pubblica; qui resta secreto sotto la forma antica, in guardia di persecuzioni, tormenti, povertà: là soffre tutte le crisi, a cui si assoggetta l’organizzazione di un pensiero finché non arrivi all’esaurimento di sé stesso; qui, casto ed assennato, s’ispira nei patimenti e nei bisogni dell’umanità, senza che la patria rispondesse finora al suo invito, ed osserva con attenzione il corso delle cose con saviezza e pazienza.
E chiudeva l’articolo indicando le finalità della rivista che s’apprestava a lanciare: «1. ripigliare le fila sperdute della nostra tradizione, svolgerla in una dottrina, da cui possa rifluire qualche poco di luce sull’ideale incerto che governa il nostro avvenire; 2. rilevare i gradi del suo attuale sviluppamento, raccoglierne ed accennare le pratiche conseguenze come dati della manifestazione sociale a cui aspira».
Lo scritto non contiene solo l’anticipazione di quell’idea della circolazione del pensiero italiano che avrebbe costituito la maggior prova del lavoro filosofico di Bertrando, ma ne spiega anche le motivazioni profonde. Per quel che si può comprendere dall’ampia ma comunque parziale edizione crociana, la tensione interna dell’articolo sta da un lato nell’enunciare che il pensiero italiano nell’intera età moderna era cresciuto ben all’interno dello sviluppo spirituale europeo e, da un altro, nell’elaborazione del tema storico e teorico della mancata Riforma: ne derivava una prospettiva militante che faceva propria la consapevolezza del limite storicamente dato agli sviluppi del movimento nazionale italiano, ma ponendosi il problema di costruire una nuova relazione tra il pensiero italiano – con i suoi spiccati tratti europei e lato sensu protestanti – e un paese segnato dall’egida tridentina. Si trattava, inoltre, di un’argomentazione della quale sia lo stile sia la determinazione a dedicarvi una rivista denunciavano un’urgenza: per istinto combattente, Spaventa ci dice implicitamente che il problema non era se vi sarebbe stata liberazione per l’Italia, ma come questa liberazione si sarebbe attuata. Vi era, infine e forse soprattutto, un’idea abbastanza determinata su quanto l’Europa potesse attendersi dall’Italia nella condivisione di una storia e di un orizzonte etico.
Con questo punto d’avvio, non vi è da stupirsi nel ritrovare l’autore nel 1848 alla direzione di un giornale liberale («Il Nazionale»), poi per sei anni nell’ergastolo di Santo Stefano, poi ancora in fuga da una nave che avrebbe dovuto condurlo in esilio perpetuo negli Stati Uniti ma che si riuscì a dirottare in Irlanda; quindi, nel 1859, a Torino, da dove Cavour nel luglio 1860 lo inviò a Napoli a preparare l’annessione delle Due Sicilie. Spaventa fu in seguito uno dei leader del Parlamento italiano; più volte ministro, ispirò la politica della sicurezza del nuovo Stato e promosse un progetto di nazionalizzazione della rete ferroviaria che causò la crisi della maggioranza e la fine del governo della Destra. Egli fu, infine, l’autore di una nota conferenza del 1879 contenente una delle più efficaci e vivide sintesi della politica risorgimentale e dei primi anni della nuova nazione .
Non meno intensa, la figura del fratello maggiore di Silvio, Bertrando, è rimarchevole soprattutto per aver egli pubblicato nel 1862 – nel suo primo anno d’insegnamento all’università di Napoli, dove era rientrato anch’egli dal Piemonte – un corso di lezioni in cui compiva il disegno a lungo covato di leggere con occhi europei la filosofia italiana. L’idea centrale della sua ricostruzione è nel porre il Rinascimento (che egli chiama Risorgimento) come punto d’inizio della modernità e, sgombrato il campo dalle insostenibili approssimazioni vichiane del De antiquissima Italorum sapientia, mostrare come l’intero percorso del pensiero italiano (dal Cinquecento fino a Campanella, Bruno, Vico, Galluppi, Rosmini e Gioberti) avesse il medesimo respiro e la medesima problematicità della filosofia europea, evidenziando le convergenze, le anticipazioni, i ritardi. Particolarmente significative in questo senso sono le relazioni che Spaventa stabilisce tra Bruno (finalmente discusso a Napoli in un corso di filosofia) e Spinoza e tra Rosmini e Kant .
Era, quello di Bertrando, un tentativo per ridefinire l’Italia da un punto di vista filosofico e impedire che la nazione si chiudesse ai nuovi influssi; esso era sorretto da una visione storica robusta e largamente in debito con il pensiero di Hegel, considerato da Spaventa l’approdo della filosofia moderna. Del resto, un’alta considerazione per Hegel fu caratteristica di un’intera generazione di intellettuali napoletani che lavorarono sul terreno critico e speculativo rinvenendo nell’hegelismo soprattutto una chiave di lettura civile, morale e culturale della modernità.
Tra gli «hegeliani di Napoli» si deve comprendere anche De Sanctis, sul quale non conviene qui spendere molte parole poiché il suo lascito arriva ancora pienamente alla nostra generazione. Adamantino il rapporto che nella vita intessé tra politica e cultura, egli appartiene con eguale eminenza all’una e all’altra e la sua Storia della letteratura italiana , oltre a essere un capolavoro storiografico e letterario, segnò il punto in cui l’Italia, appena costituitasi in nazione, iniziava a riappropriarsi del proprio passato gettando uno sguardo, allo stesso tempo sintetico e straordinariamente profondo, sugli autori, le epoche e le correnti della sua lingua e della sua letteratura.
Fu dunque la generazione rivoluzionaria nata a cavallo degli anni dieci e venti dell’Ottocento che riuscì a compiere la missione a lungo attesa, a «prendere il potere». Fino al ’48 quegli uomini non avevano escluso alcuna possibilità (giacobinismo, federalismo, mazzinianesimo, neoguelfismo ecc.), ma quando fu chiaro che solo il Piemonte di Cavour aveva qualche possibilità di conseguire l’unità e l’indipendenza nazionali, si sottomisero a quel disegno e lavorarono in quella prospettiva. Fu un gioco di squadra mirabile e perfetto che attrasse anche molti di coloro che avevano manifestato altri intendimenti e sostenuto altre strategie (si pensi al contributo di Garibaldi) ed è difficile immaginare, in quel tempo e in quelle circostanze, un risultato più pieno.
Pur nel grande patrimonio di intelligenza (oltre che di sacrificio e di sangue) che la generazione del Risorgimento devolse alla causa nazionale, si rinviene nei tre – che costituivano anche i riferimenti di una rete di conoscenze, amicizie, solidarietà e furono parte di un movimento ampio e complesso –, più che in altri intellettuali o in altri gruppi di patrioti, la più elevata coscienza dei limiti e delle possibilità della realizzazione del progetto unitario, vivendo in loro quel realismo critico che solo poteva consentire la realizzazione di un disegno che quando fu concepito appariva senza speranza.
Nella loro traiettoria, si erano posti sin dall’inizio il problema del «dopo la rivoluzione», lavorando alla costruzione di una cultura nazionale in grado di resistere alle inevitabili spinte disgreganti interne e internazionali scaturite per reazione all’azzardo piemontese. Non l’avevano fatto in modo dogmatico ma, anzi, in modo critico, attingendo alle metodologie di ricerca più colte e raffinate e nella consapevolezza che il discorso dell’unità era destinato a sfidare il tempo in un confronto a tutto campo, all’interno del paese e fuori. Per ricomporre il quadro d’insieme della – ormai si poteva dire – cultura nazionale essi avevano dunque scelto il metodo storico, confutabile per antonomasia attraverso semplici saggi critici che chiunque avrebbe potuto scrivere, dando così un carattere liberale all’ideologia del nuovo Stato.
Per questo a noi sembrano gli eredi di Cuoco e di Vico ma, soprattutto, gli inventori di un tratto fondante della storia nazionale; e anche coloro che per primi affrontarono quei problemi che, mai del tutto superati, si ripresentarono in nuove forme alle generazioni successive.
Crisi
Dopo poco più di un quindicennio di un governo forte e autorevole – durante il quale il paese completò l’unità, con Venezia e Roma, batté la reazione e gettò le basi del nuovo Stato – venne il tempo della crisi, dei ripensamenti, delle divisioni. Era forse inevitabile ma si ha l’impressione che nulla fosse in grado di sostituire la visione drammatica e militante dei fondatori e che tutto ciò che venne dopo indica una crisi progettuale del paese: un sistema parlamentare fragile ed elitario, una proiezione internazionale incoerente e talora avventurosa e, soprattutto, l’incapacità di affrontare i problemi posti dallo sviluppo delle nuove organizzazioni dei lavoratori e della società di massa, cioè il problema della democrazia. Non aver compreso che senza democrazia anche la nazione era a rischio fu il limite maggiore della classe politica liberale e fu necessario lo sdegno, anche da settori liberali, per i cannoneggiamenti antipopolari del 1898 perché divenisse chiaro che la «questione sociale» non era un puro tema amministrativo.
La cultura legata al magistero di Bertrando Spaventa avvertì, a suo modo, il problema. L’adesione di Antonio Labriola al marxismo portò in Italia la discussione sul materialismo storico e se da un lato indicava quale aspetto del pensiero di Marx apparisse più consono a quella tradizione, da un altro costituiva una critica degli esiti del liberalismo.
Del resto, se lo sbocco della tormentosa crisi di fine secolo fu l’innovativa fase politica che va sotto il nome di età giolittiana, al tentativo di Giolitti di ammodernare lo Stato e fare entrare il proletariato organizzato nei gangli decisionali non bastò il sostegno del socialismo riformista. La corrente politico-culturale più vivace del tempo, il sindacalismo rivoluzionario, perorava, sulla scia di Sorel, un disegno movimentista di occupazione dello Stato da parte delle masse, senza alcuna elaborazione del tema della democrazia, per cui molti militanti poterono poi perseguire quel disegno tanto nelle file fasciste che in quelle comuniste. Nel breve periodo, questo comportò che il piano riformista fosse attaccato contemporaneamente sia da destra (Prezzolini e i suoi amici) sia da sinistra (la critica più aspra venne da Salvemini), segno di un buio profondo, dell’obnubilamento delle coscienze, di un paese senza guida.
Seguirono il nazionalismo, la guerra, l’esplosione elettorale dei partiti di massa, la minaccia rivoluzionaria e, alla fine, il liberalismo che non aveva capito e accolto la democrazia morì.
Ripresa
Non tutto era andato perduto; innanzitutto non il disegno nazionale, ma neanche la metodologia inaugurata dai nostri eroi, le cui opere furono raccolte, riedite, difese e commentate da coloro che si ritenevano loro eredi, in primis, ai tempi del loro sodalizio, da Benedetto Croce (che degli Spaventa era nipote), per quel che riguarda De Sanctis e Silvio Spaventa, e da Giovanni Gentile, per quel che riguarda Bertrando. Per non dire che i lavori di De Sanctis e di Bertrando avevano lo spessore per entrare naturaliter nei programmi accademici e rimanervi stabilmente; anche se, com’è noto, il tempo spegne le passioni e il pensiero vivente richiede nuove passioni per essere inteso nella forma originaria in cui era stato concepito.
La ripresa dei temi storicisti come fatto, oltre che culturale, civile e politico, avvenne quando si stavano chiudendo le prospettive di sviluppo civile e sociale che avevano alimentato le tensioni e le lotte popolari del dopoguerra: il liberalismo, la democrazia, il socialismo, il popolarismo e la rivoluzione si avviavano all’uscita di scena e il paese stava sprofondando nella notte fascista. A differenza dei fondatori, però, la riproposizione di quel metodo non avvenne per opera di un gruppo di intellettuali della stessa formazione, pressoché coetanei, insistenti sullo stesso territorio e tutti, in certo qual modo, espressione degli aspetti migliori del sistema d’istruzione delle Due Sicilie, ma – segno delle nuove e più complesse articolazioni sociali del paese – da persone di differenti regioni, diverse per provenienze politiche e per percorsi culturali, che avevano diversamente pensato e lottato nel periodo della guerra e del dopoguerra.
Fu invece singolarmente coincidente a quello di ottant’anni prima, come mostrano studi recenti, il punto d’avvio: il tema della Riforma protestante o, meglio, della mancata Riforma in Italia. Non più veicolato da Hegel e da Guizot, l’argomento del contributo della Riforma alla costruzione dell’Europa moderna passava allora per autori quali Ernest Renan, Tomáš Masaryk e, soprattutto, Max Weber; in Italia – non più tabù dacché la libertà della professione religiosa era stata estesa dal Regno di Sardegna all’intero paese – era stato ripreso, anche sulla scia dell’insegnamento di Bertrando Spaventa, da filosofi come Augusto Vera e Angelo Camillo De Meis, che avevano argomentato su quanto l’assenza della Riforma avesse condizionato i tratti del paese; più di recente, il giovane giornalista Mario Missiroli aveva riagitato la questione in un vivace pamphlet del 1914, La monarchia socialista.
Fu Piero Gobetti, nel febbraio 1922, a ripresentare l’argomento nel Manifesto edito nel primo numero di «Rivoluzione liberale» . Il tema di Gobetti era, da un lato, la rilettura della storia del paese alla luce di categorie in grado di evidenziare limiti e potenzialità di un’esperienza nazionale carica di messaggi e tradizioni non univoci; da un altro, il tentativo di individuare gli argomenti su cui concentrare le energie per rompere un assedio politico e culturale sempre più stringente. Da allora, nel suo breve e intenso percorso, il tema restò centrale, nel senso tradizionale della mancata Riforma, ma anche per la connotazione del protestantesimo quale elemento irrinunciabile di ogni moto di progresso nazionale, ancorché il protestantesimo gobettiano non fosse religioso ma basato sul distillato civile dell’esperienza del cristianesimo riformato. Né egli fu solo in questa battaglia: nello stesso mondo protestante maturò l’esperienza della rivista «Conscientia» (1922-27), facente capo al pastore statunitense Dexter Whittinghill e al giovane filosofo Giuseppe Gangale , inconsueto e forse unico esempio italiano di un cristianesimo evangelico giocato direttamente in senso antifascista e democratico-rivoluzionario.
Per quanto queste iniziative potessero apparire minoritarie e disperate, esse toccavano un punto nodale anche perché da ambienti fascisti – in particolare Curzio Suckert, che non aveva ancora assunto lo pseudonimo di Malaparte – ne fu operato un rovesciamento, che appariva anche una conferma della tesi gobettiana, con un esplicito richiamo alla Controriforma come fondamento e prima origine del movimento fascista .
A questo punto, però, fu Benedetto Croce a intervenire nella discussione, elevandola e spostandone i termini. Tra il 1924 e il 1925 pubblicò tre straordinari saggi (Controriforma, Il concetto del barocco, Decadenza italiana) che disegnavano una chiave interpretativa di grande efficacia e suggestione del rapporto tra lo Stato nazionale italiano e un lascito del passato non univoco e lineare ma complesso, ricco, contraddittorio . Per nulla episodico, l’intervento di Croce costituiva un momento di un passaggio decisivo nella biografia del filosofo che stava ridefinendo – pur con continuità di linguaggio e di operosità – il suo rapporto con la cultura nazionale. Croce, che a differenza di Gobetti non aveva colto precocemente il passo cui il fascismo avrebbe condotto il paese, stava utilizzando tutta la sua influenza per tenere aperta nella cultura italiana una via alternativa al totalitarismo incipiente; e ciò anche con un’attività pubblica quale sarebbe stata la promozione di una Protesta contro il manifesto degli intellettuali fascisti (pubblicata il 1° maggio 1925 in opposizione a un noto documento promosso da Gentile), ma soprattutto gettando le basi per una ricostruzione della storia del paese che impedisse o ostacolasse il formarsi di una Weltanschauung fascista e tenesse aperta la via a una ripresa democratica.
Nel far questo Croce si ricollegava al lavoro già svolto dagli storicisti dell’Ottocento, i cui echi non si erano spenti anche per suo merito, attualizzandone il significato e rivitalizzandone gli intenti. Ma la nuova determinazione con cui operò fece sì che, già pronta per le stampe la Storia del Regno di Napoli (1925), egli pubblicò in rapida successione i suoi maggiori lavori storiografici: la Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (1928), la Storia dell’età barocca in Italia (1929), la Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932). Del resto, la storiografia in senso proprio (non cioè la storiografia letteraria o filosofica), oltre a essere la disciplina che gli storicisti dell’Ottocento avevano meno coltivato, era un punto debole della cultura italiana e i volumi laterziani rosso mattone degli scritti di Croce occuparono uno spazio che si ricollegava ai precedenti lavori del prolifico autore, tenendo aperta una prospettiva storica di lungo periodo densa di riferimenti internazionali (specie, ma non solo, con la Storia d’Europa).
Nel regime fascista Croce svolse cioè il ruolo di controcanto discreto e laborioso («casto ed assennato» avrebbe detto Silvio Spaventa) del regime, coltivando con i suoi libri, la sua rivista («La Critica») e le sue relazioni in Italia e all’estero vari campi di ricerca e di riflessione. Il suo lavoro, ancorché rivolto prevalentemente al ceto borghese colto (per questo motivo, del resto, fu tollerato e il filosofo non fu costretto a emigrare), ebbe un rilievo imprescindibile, ancora nelle maglie della dittatura, nella riproposizione di una linea di cultura democratica e anche nella formazione dei quadri dell’antifascismo.
Ma dopo ebbe un’altrettanta influenza, se non maggiore, allorché l’impianto concettuale storicista fu largamente adottato dai partiti politici che contribuirono alla Liberazione e alla stesura della Costituzione. Per le forze politiche – vissute nel settarismo della clandestinità e dell’esilio ma che nella Resistenza avevano già scelto, con la formazione del Comitato di liberazione nazionale, di dare vita a una democrazia – vi era il problema di trovare forme di comunicazione concettuali e politiche che permettessero il dialogo tra i partiti e tra questi e la società. Se socialisti e comunisti dialogavano tra loro, peraltro problematicamente, attraverso la comune radice marxista, come avrebbero potuto intendersi con i liberali e con i cattolici, e questi ultimi tra loro, senza l’adozione di un linguaggio che da tutti potesse essere compreso e parlato? Peraltro, elementi di storicismo erano già nelle culture socialiste, per gli aspetti del pensiero di Marx sottolineati da Labriola, per la presenza nella sinistra di una serie di culture liberali in parte compatibili con lo storicismo (per es., la tradizione di Gobetti, dei fratelli Rosselli, del Partito d’azione ecc.) e per l’attrazione esercitata dal crocianesimo già in periodo prefascista sul Partito socialista e sulla corrente ordinovista del Partito comunista. Per non dire dei liberali, che in buona parte facevano esplicito e diretto riferimento al magistero crociano.
Questo ci sembra il motivo essenziale per cui l’intero sistema politico-culturale repubblicano fece propria una metodologia che consentiva una sostanziale vitalità alle «subculture» ma teneva ferma la centralità del linguaggio, cioè la modalità dell’incontro e del confronto; un po’ come avveniva in politica, dove la presenza dei partiti e delle organizzazioni di massa era ritenuta necessaria per la democrazia e perciò garantita, ma che non avrebbe dovuto spingersi a mettere in discussione la centralità del Parlamento e delle istituzioni. In questo senso si può dire che il lavoro del filosofo liberale era maturato nella costruzione di una koinè aperta a vari apporti e linguaggi, anche a chi non aveva motivo o desiderio di dirsi crociano.
Del resto esigenze storicistiche maturavano anche in altri ambiti. Se per i cattolici del Cln Croce non era la bestia nera a suo tempo dipinta da «Civiltà cattolica», un’autonoma convergenza è rinvenibile nelle prime prove di un giovane giurista cattolico destinato a divenire uomo politico di prima grandezza. Chi ha preso in esame le dispense dei primi corsi universitari (1944-47) di Aldo Moro e ne ha colto la rilevanza quale «espressione omogenea e punto di partenza» della sua riflessione civile e politica.
Vi si confermano i tratti eterodossi della sua formazione cattolica rispetto a quelli abituali della coeva generazione. Tanto più forte il carattere intimistico della sua fede, volto a permeare e a costituire l’essenza stessa dell’attività sociale e politica, tanto alieno dal chiudersi in un cerchio preordinato, che la stessa dottrina sociale della Chiesa si propone come parte di un divenire, in cui il termine «vita» ne segna la natura reale e spirituale ed insieme il carattere di contemporaneità propria della storia. Era così presente in lui «un senso della storia e dello svolgimento storico negato alla maggior parte dei giusnaturalismi puri» (Elia). E come se la trascendenza cattolica operasse così nell’immanenza della storia umana, in cui si compendiava il suo «cristianesimo integrale», che aveva dunque articolazioni diverse da quelle che avrebbero potuto scaturire da una semplice derivazione da Maritain .
Resta da vedere quanto l’approdo storicista derivasse da un’elaborazione di autori cattolici (sono stati fatti i nomi di Widar Cesarini Sforza, Felice Battaglia, Giuseppe Capograssi) o da una diretta influenza crociana. Non avremmo dubbi però nel sostenere che l’intera sua azione politica si sviluppò all’interno di una robusta visione storica e che, di conseguenza, la sua opera è ricca di osservazioni originali (per esempio, sul ruolo della destra nella vicenda repubblicana, sul ’68, sulla crisi di regime degli anni settanta) che ne fanno un riferimento essenziale, non ancora debitamente valorizzato, per la ricostruzione della storia del paese .
Ma anche da altri ambiti giungevano convergenze indicative. Tra la fine degli anni quaranta e i primi cinquanta a problematizzare e rafforzare la prospettiva storicista venne un fatto culturale di prima grandezza, cioè la scoperta di Gramsci, del quale furono pubblicati gli scritti del carcere. Alla fine del 1926, nel noto saggio sulla questione meridionale, il leader comunista mostrava di aver compreso, in particolare a proposito delle posizioni di Gangale, l’ampiezza della prospettiva aperta da Croce e probabilmente si apprestava a intraprendere su questa una discussione, anche al fine di contestare a Croce la guida intellettuale dell’antifascismo . Ne fu impedito dall’arresto e non poté mettersi al lavoro prima che la condizione carceraria si stabilizzasse, nel febbraio 1929. Allora la sua scrittura assunse la forma dei quaderni (di traduzione, miscellanei e tematici) che solo l’edizione critica (1975) avrebbe evidenziato, ma già la prima edizione, cosiddetta tematica, dava conto di una ricerca ardita e rigorosa che conteneva una parte dei temi già affrontati da Croce – in un confronto talora punteggiato di osservazioni critiche e metodologiche – ai quali se ne aggiungevano altri, con insistenze su alcuni aspetti del Cinquecento (Machiavelli in particolare) e sulla storia e sulla cultura più recenti, quali l’«americanismo», il folklore e le culture popolari e subalterne, nonché vari aspetti «trasversali» come la storia degli intellettuali, l’«egemonia», la «rivoluzione passiva», i problemi della lingua .
Gramsci dunque aveva accolto e condiviso la scelta crociana di ridefinire l’orizzonte storico a partire dalle condizioni del paese e, in questo senso, aveva lavorato su un’analoga prospettiva ma, diverso per sensibilità, interessi, temperamento e linguaggio, aveva portato nel quadro d’indagine anche temi a Croce estranei o marginali, soprattutto una serie di nodi e questioni riferibili agli sviluppi dei movimenti popolari e della società di massa dell’Otto-Novecento. In verità in Gramsci vi era anche la prospettiva di una rifondazione della filosofia marxista su una base di autonomia dalle altre correnti filosofiche (compreso quindi il neoidealismo crociano), ma nella riflessione gramsciana ciò implicava una revisione non marginale di un pensiero incagliato nell’infernale trappola del rapporto struttura-sovrastruttura ; ciò faceva sì che i quaderni esprimessero il punto di vista di un marxismo le cui venature eterodosse e il cui radicamento nella tradizione storicista tendevano a disegnare una problematicità Gramsci-Croce con forti elementi sia di contiguità sia di differenziazione.
Di più: proprio perché Gramsci non aveva scritto un libro, ma aveva composto un affresco dei percorsi della modernità, la sua opera offriva chiavi nuove e inattese per ricercare il senso di un passato e di un presente pieni di incognite, ripresentando temi e problemi con una libertà radicale e critica di ogni precedente dogmatica. In definitiva, il contributo di Gramsci – fu subito chiaro che si trattava di un «classico» – veniva a problematizzare quella che sino allora, sulla base delle due maggiori rappresentazioni della storia d’Italia, si usava definire la linea De Sanctis-Croce, ponendosi nei confronti di Croce in parziale alternativa ma confermando la validità e le potenzialità di un’impostazione di ricerca e di una tradizione di pensiero.
Che non si sia trattato di una convivenza del tutto pacifica lo mostra, per esempio, la polemica aperta da Rosario Romeo contro la lettura gramsciana del Risorgimento , polemica che rivela però anche un limitato ambito del dissenso e che comunque mostra, specie se riletta oggi, una sostanziale condivisione del linguaggio. Il clima che nel complesso si andava creando era dunque favorevole agli ulteriori sviluppi della ricerca come testimoniano grandi opere storiografiche come Settecento riformatore di Franco Venturi (5 voll., 1969-90) o Cavour e il suo tempo di Romeo (3 voll., 1969-84), mentre nel 1960 iniziava la maggiore impresa storiografica italiana con l’uscita del primo volume del Dizionario biografico degli Italiani diretto da Alberto M. Ghisalberti.
Ma non vale parlare solo della storiografia (per la quale si dovrebbero poi almeno ricordare gli studi cinquecenteschi proseguiti sulla scia di Cantimori e Garin) ché l’intera cultura italiana – e come si potrebbero dimenticare qui il cinema e la letteratura? – ebbe a svolgere il ruolo di attento e partecipe guardiano del difficile progresso italiano e della sua giovane e fragile democrazia, come se questo fosse il suo scopo precipuo. Nel far questo, figure come Arturo Carlo Jemolo, Eugenio Garin, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Federico Chabod, Norberto Bobbio e cento altri ebbero un ruolo fondamentale.
Conclusioni
Le annotazioni qui raccolte – non conclusive, al più l’inizio di un percorso di studio – mostrano una correlazione non casuale tra un programma politico radicato in una metodologia di ricerca e di comunicazione basata sulla storiografia e i periodi più significativi dello sviluppo nazionale. Ovvero, una volta posti il Risorgimento e l’antifascismo come le maggiori realizzazioni del paese, appare abbastanza chiaramente, senza far violenza alla storia e ai testi, che entrambi questi movimenti hanno avuto tra le loro componenti un’elaborazione lato sensu storiografica che ha costituito anche un aspetto rilevante della comunicazione interna (dal linguaggio della discussione alla formazione dei quadri) e dell’argomentazione politica.
Ora, questa stessa lettura, pur nella sua stringatezza e approssimazione, pone una serie di questioni non banali; qui intendiamo, a mo’ di elenco provvisorio, enunciarne alcune.
1. Si può rimanere stupiti nel costatare che la comparsa di questa tendenza è intimamente connessa con una discussione su un tema religioso quanto civile, benché lo storicismo, come fenomeno culturale, nel suo svolgimento non mantenga traccia visibile del fatto religioso, se non, eventualmente, per essere la religione stessa un fatto storico. Sul punto ci limiteremo a poche considerazioni provvisorie su un orizzonte che, a distanza di decenni, ha subito qualche cambiamento ma non appare sostanzialmente diverso.
Innanzitutto, si può notare una certa costanza nel ripresentarsi del tema della Riforma, cosa che induce a ritenere che, per vie un po’ indirette, lo storicismo costituisca anche un’eredità del moto protestante. Come se – era questa, in fondo, l’intuizione di Silvio Spaventa – la storia dell’intelligenza italiana, in quanto parte dell’intelligenza europea, contenesse le medesime esigenze di libertà di questa e dunque, su quella base, fosse possibile svolgere un discorso dall’interno della tradizione culturale in grado di spostare gli equilibri nel paese.
Incide qui la circostanza, più generale, che il protestantesimo in Italia non è la cultura di una minuscola minoranza, come si potrebbe dedurre dalle statistiche delle professioni di fede, ma la cultura di una minoranza molto consistente che però, non riconoscendosi nella religione riformata, non ha visibilità religiosa, con la conseguenza di lasciare al solo cattolicesimo la dimensione spirituale. Del resto, anche il protestantesimo italiano «dichiarato» (largamente legato all’eresia valdese) non è in grado di riconoscere quel protestantesimo «storico» come parte di sé. Questa sembra anche l’eredità della particolare ventura della cultura italiana, nella quale il moto riformatore intraprese subito, con Machiavelli, non un percorso religioso ma «storicista».
Altra considerazione riguarda la cultura cattolica, nella quale sembra essere avvenuto un significativo spostamento di equilibri (abbiamo parlato di Moro, ma il discorso potrebbe estendersi), ancorché si tratti di uno spostamento «qualitativo», riguardante all’inizio pochi intellettuali e poi, comunque, una minoranza. Si può dire che il costituzionalismo repubblicano, con le sue intime esigenze democratiche di libertà e uguaglianza, sia penetrato profondamente in settori cattolici producendo (specie tra gli homines novi della Democrazia cristiana, che tanta parte hanno avuto nel nostro percorso democratico) nuove figure di militanti. Costoro si muovono programmaticamente nel processo storico a prescindere dalla professione di fede, nel senso di accettare l’individualità e quindi la «relatività» della propria convinzione e comunque, e questa è una novità «formale», con un vincolo di obbedienza molto attenuato o addirittura inesistente.
Si tratta di un movimento in corso, con successive fasi di stasi e accelerazione, che non sembra avere fissato un approdo, la cui radice è forse nell’aver il cattolicesimo, dal concilio di Trento in poi, «stravinto» in Italia la battaglia contro la Riforma, e dunque abbia dovuto assumere in parte le posizioni dell’avversario battuto. Anche prescindendo dall’attualità, che non offre grande visibilità al cattolicesimo per noi più interessante, è certamente presto per dire «Graecia capta ferum victorem cepit». Inoltre restano alcune domande cui oggi non sapremmo trovare risposta: è possibile un cattolicesimo senza vincolo d’obbedienza? non era proprio la rottura di questo vincolo, con il conseguente «libero esame» della Scrittura, tema centrale della Riforma? Però è indubbio che alcuni passi siano stati compiuti, che la cultura cattolica dell’età repubblicana sia stata variegata, vivace e reattiva (al punto che è quasi impossibile parlare della cultura cattolica come di un movimento unitario) e che ne possano ancora venire novità importanti.
Peraltro, se interroghiamo Croce sui rapporti tra religiosità e modernità, troviamo che l’intera sua personalità fu intimamente attraversata da questo tema: indubbia, anche se mai pubblicamente dichiarata, una religiosità autentica, disse del suo giovanile distacco dal cattolicesimo ma non rese esplicito un orientamento protestante che pur traspare da molti scritti . Se possiamo rinvenire qui la dimensione intellettuale moderna al livello più raffinato, nel quale la storia costituisce il terreno del rapporto tra sé e il mondo e dunque il senso stesso dell’avventura umana, percepiamo anche l’intuizione che il moto cristiano, anche in Italia, fosse potenzialmente ben più forte della Chiesa che allora lo rappresentava grandemente.
2. Gramsci aveva colto, con il suo stile fulminante, la nuova disposizione antifascista di Croce anche perché era con essa già in sintonia. Sbagliava, nel citato scritto del ’26, nel leggere Croce come espressione del «blocco agrario meridionale», ma la comparsa lì del tema dell’egemonia (l’idea che gli intellettuali possano costituire un’«armatura flessibile ma resistentissima» di un blocco politico-sociale) e la denuncia del sodalizio ideale con Salvemini mostrano in quale direzione stesse riflettendo.
Ciò che soprattutto gli dobbiamo, nell’ambito della presente rappresentazione, è l’aver problematizzato il tema dell’egemonia, fulcro dell’intera elaborazione dei Quaderni del carcere, verso cui converge gran parte dei percorsi di riflessione: la storia degli intellettuali italiani, il ruolo di Machiavelli e la funzione del «nuovo principe», l’orizzonte della «riforma intellettuale e morale», la problematica rilettura del Risorgimento, la stessa discussione su Croce. L’elaborazione del tema dell’egemonia non è solo o tanto un aspetto della ripresa dell’interpretazione che del marxismo aveva dato Lenin (non è radicata, cioè, esclusivamente nella riforma del marxismo cui Gramsci attendeva), ma innanzitutto risponde al problema storico dei movimenti di liberazione che in Italia, per la particolare vicenda del paese, trovano una difficoltà in più a disporsi in forme razionali e stabili, con la conseguenza che ogni riequilibrio dei poteri trascina con sé parte dei vecchi equilibri, con connubi carichi di tensioni che rendono impossibile quel «dominio della legge» che tende a «normalizzare» le società moderne. Dunque, ancor più dinanzi a un regime strutturato e totalitario come quello fascista, non si sarebbe potuto dare un reale rinnovamento senza la costruzione di un progetto con un marcato elemento di centralizzazione teorica e ideologica. Questa centralizzazione «culturale» costituiva anche la versione moderna (cioè adattata a una società più articolata e complessa) della funzione a loro tempo svolta dal giacobinismo e dal leninismo e, mutatis mutandis, rispondeva al tema posto dal giovane Spaventa dal quale abbiamo preso le mosse.
In questo senso e in questo caso (ma non accadde quest’unica volta) Gramsci previde che la liberazione dalla dittatura e la rinascita del paese sarebbero passate per una forma di centralizzazione culturale in grado di tenere insieme la gran parte delle pulsioni popolari e delle diverse culture sulla prospettiva di una riforma intellettuale e morale. L’egemonia – cioè, nella formulazione più elaborata, l’insieme di dominio e di direzione intellettuale e morale – assunse le forme e i colori dell’antifascismo e gli attori furono con buona approssimazione quelli intravisti da Gramsci: Croce, il partito che Gramsci aveva contribuito a costruire e l’insieme delle forze laiche e cattoliche che si ritrovarono nel disegno democratico; il tutto in un contesto «repubblicano» che rende impossibile attribuire una primazia a questa o a quella corrente.
3. Ma perché non riusciamo più a pensarci storicamente? In via di principio, sarebbe stato possibile che lo storicismo italiano, nella forma e nella tradizione in cui l’abbiamo sommariamente riassunto, fosse battuto teoricamente e dunque superato da più efficaci forme di pensiero, ma non è avvento questo. Non che non siano state talora mosse critiche anche motivate quali, per esempio, una certa insensibilità del crocianesimo alle ragioni della scienza, ma la crisi non è avvenuta su questo terreno; anzi, non vi è stata alcuna crisi teorica. Né la dissoluzione è da collegare con i temi della globalizzazione, che ha portato senza dubbio nuovi elementi che costringono a modificare i quadri di riferimento, ma non i riferimenti già noti né, per larga parte, le linee direttrici della vocazione nazionale del paese.
La risposta è dunque da ricercarsi nella nostra storia politica. Lo storicismo è venuto meno in quanto «ideologia nazionale» quando è venuto meno il sistema politico del quale era parte integrante. E qui i problemi essenziali sono due: a) come e perché si è verificata la crisi del sistema politico; b) perché questa volta la cultura non è stata in grado di fronteggiare la crisi politica.
Circa il primo quesito abbiamo argomentato altrove e non possiamo qui ripeterci; diremo solo che la rottura del sistema politico avvenne con il delitto Moro (e non, come generalmente si crede, con la caduta del Muro di Berlino o con la fine dell’Urss). Nel 1978 si ruppe il progetto repubblicano-costituzionale che aveva innervato l’intera ricostruzione del paese; da allora iniziava la deriva che tuttora perdura . L’antifascismo si dimostrava non in grado di assicurare al paese la transizione necessaria verso un sistema che consentisse un’alternativa di governo e, una volta che il problema era stato posto, la sconfitta fu definitiva.
Più complesso, forse, l’altro quesito. Se la cultura giungeva all’appuntamento logora al punto di non poter svolgere quel ruolo di contenimento e di guida che aveva svolto precedentemente, è possibile che alcuni motivi vadano ricercati nel movimento del Sessantotto, che aveva pervaso nel profondo la cultura italiana, laica e cattolica, di destra e di sinistra. Il Sessantotto aveva prodotto una formidabile e convincente spinta nella direzione della libertà individuale – e di ciò il paese aveva un gran bisogno – ma aveva anche polverizzato il tema dei vincoli, delle compatibilità, del «sistema». Lo slogan d’origine guevarista «soyez réalistes, demandez l’impossible» (che in Francia risonava in una tradizione surrealista e, in fin dei conti, letteraria), in Italia, dove il movimento sopravvisse per un decennio e oltre, ebbe l’effetto d’indebolire la resistenza all’eversione di una società civile ben più giovane, fragile e incerta. Ciò probabilmente disarticolò e rese meno determinata la tradizione antifascista che era comunque collegata a una fase construens della nazione; del resto, ci è difficile leggere se non come «onda lunga» del movimento anche quella sorta di Sessantotto della borghesia rappresentato dalla multiforme e lucida traiettoria, ormai quarantennale, disegnata dalla P2. Ma questa è solo un’approssimazione e ben altri approfondimenti sarebbero qui necessari.
Ma, guardando al futuro, il tema centrale è un altro. Se la seconda crisi dello storicismo coincide con la seconda crisi del progetto nazionale, è possibile ripensare l’Italia senza la ripresa di una chiave storicista? Non è proprio l’assenza di questa chiave – cioè di un’idea dell’Italia – che appesantisce e schiaccia sul presente la prospettiva di ogni movimento politico?
(Il presente testo costituisce una bozza di un saggio in corso di stesura. Per citarlo si chiede di scrivere prima all’autore, a f.m.biscione@gmail.com)
Ottimo contributo, un vero stimolo alla riflessione, in un sito di indubbia qualità.