L’Italia e il mediterraneo. Note tra geografia e cultura

di Franceco Caddeo

Il rapporto tra l’Italia contemporanea e il Mediterraneo può apparire banale: da un semplice punto di vista geografico, l’Italia è protesa in quel mare condiviso, e lo taglia più o meno a metà tra una parte orientale e una parte occidentale. La maggioranza delle regioni italiane è bagnata da quel mare, adotta spontaneamente una dieta mediterranea, fa del sole e del clima del mare nostrum un elemento caratteristico e naturale.

In realtà, paradossalmente, fatta eccezione per i periodi coloniale e dittatoriale, l’Italia contemporanea ha tendenzialmente trascurato il Mediterraneo. Di conseguenza, al di fuori delle sue sciagurate e vergognose politiche espansionistiche dell’inizio del Novecento e del periodo fascista, l’Italia non ha tessuto legami duraturi e consistenti con un mondo mediterraneo che è rimasto lontano. Si è quindi cercato di rendere il Mediterraneo un mare nostrum solo nei termini di una politica aggressiva di potenza, ma, una volta che questa politica ha mostrato la sua inconsistenza, il Mediterraneo è tornato mare altrui.

È difficile parlare di Mediterraneo in un Paese che ha un senso molto debole della politica estera, che concepisce quest’ultima come un accodarsi alla tendenza del momento, che evita ogni scelta netta (siamo il Paese dell’Occidente più vicino alla Russia o un membro ultraconvinto della Nato? Siamo filoisraeliani o filopalestinesi?) e in cui durante le campagne elettorali ogni riferimento alla situazione internazionale è assente (chi mai vota in Italia basandosi sulle proposte dei candidati in materia di politica estera?).

Persino la prima guerra mondiale è insegnata concentrandosi sul fronte del Carso e dell’Isonzo (e sulle loro tragedie); senza negare l’importanza di quelle drammatiche campagne militari, mancano a questa visione alcuni tasselli. Non si può, infatti, comprendere pienamente la politica italiana durante la prima guerra mondiale, senza ricordare la presenza italiana nel Mediterraneo Orientale: a partire dalle sue basi libiche e dalle isole del Dodecaneso, l’Italia è impegnata su quel fronte contro le forze turche. Tale vicenda bellica si conclude per l’Italia con l’occupazione del bacino di Adana su cui ha mire territoriali ed economiche (e che evacuerà di fronte alla riorganizzazione dell’esercito turco).

Su questa storia, come sulla storia coloniale italiana, è calato il sipario di una rimozione di tipo freudiano (che in quanto tale è condannata a ritornare in senso imprevisto e obliquo), riportata alla luce dalle sole (e solitarie) ricerche di Angelo Del Boca e della sua scuola.

Va inoltre sottolineato come nella memoria nazionale sia assente ogni riferimento al rimpatrio delle comunità levantine negli anni Cinquanta e Sessanta, sotto la spinta anticoloniale che fremeva nel Nord Africa e nel Medio Oriente. Le comunità italiane levantine, ultima lascito della diaspora (soprattutto veneziana ma non solo) generata dalle repubbliche marinare e dai loro traffici, sono state costrette ad abbandonare Alessandria d’Egitto e, in seguito, Tripoli e la Cirenaica, in quanto identificate con una presenza “occidentale” e filocoloniale. La partenza degli italiani (o di coloro che erano considerati tali a partire dalle loro origini) dalle città cosmopolite del Levante (in concomitanza con quella altrettanto lacerante dei greci, degli ebrei sefarditi, dei sirolibanesi) non ha suscitato la stessa reazione rispetto alla sorte degli italiani di Istria e Dalmazia.

Persi i tragici sogni imperiali, i possedimenti coloniali e lo spirito avventuristico che tante disfatte le hanno fatto subire, l’Italia rinuncia al suo desiderato “posto al sole” e, a partire dal secondo dopoguerra in poi, si rivolge a Nord e ad Ovest. Dal Nord arriva lo sviluppo economico, la tecnologia, una certa idea di efficienza, degli alleati europei; dall’Ovest atlantico arrivano il mercato, la NATO, uno stile di consumo e una serie di mode “all’americana”. Persino Fabrizio de André si lamenta della mancanza nella cultura italiana di un legame forte con culture antropologicamente vicine (si pensi al Maghreb o al Levante): secondo l’artista genovese un’Italia che guarda al mondo anglosassone discostandosi dal mondo ottomano, arabo-berbero, greco, ispanico, è un’Italia destinata a restare una copia sbiadita di un mondo artificiale e senza legami con una vita concreta, fatta di cibo, di suoni, di odori, di clima, di materiali, di abitudini[1].

In questo dopoguerra “atlantico” e “continentale”, fanno eccezione la politica di Enrico Mattei favorevole al terzomondismo petrolifero arabo e mediorientale, l’ammirevole sincerità politica di Giorgio La Pira e, seppure in senso più opportunistico, la machiavellica e discreta politica estera italiana di rispetto per il mondo mediorientale, di cui Giulio Andreotti è stato il protagonista più celebre e più discusso (per non dire discutibile).

Dal punto di vista intellettuale, la questione mediterranea è stata riportata alla luce recentemente da Franco Cassano e dal suo pensiero meridiano. In chiave storiografica risultano interessanti anche gli studi di Franco Cardini. Si assiste quindi ad una certa frattura tra un mondo intellettuale, che non ha dimenticato la questione mediterranea, e che cerca periodicamente di riportarla nel dibattito delle idee, e un mondo politico che sembra guardare altrove. I percorsi intellettuali e artistici animati da un sincero volontarismo non fanno altro che rendere ancora più evidenti le impasse politiche, economiche e diplomatiche. Del grande summit di Barcellona del 1995 che doveva segnare tutte le future relazioni intramediterranee all’epoca del processo di pace in Palestina e della fine della guerra fredda, non restano che le collaborazioni nelle questioni di sicurezza e di lotta al terrorismo. Alla stessa maniera, l’unione Euromediterranea voluta da Sarkozy nel 2008 ha lasciato solo qualche foto (in cui i leader europei si circondano di dirigenti arabi che saranno poi mandati in pensione dai loro popoli nel 2011).

Alessandro Vanoli ha ragione nel ricordare come il Mediterraneo non sia mai stato nella storia un luogo di concordia e di condivisione pacifica: una fratellanza mediterranea disinteressata e simmetrica, in nome della giusta ripartizione dei vantaggi commerciali è per il momento un’invenzione[2]. Tuttavia, la nostra epoca vede gli elementi centrifughi moltiplicarsi e aumentare le logiche di chiusura.

Pensiamo all’epoca sepolta delle repubbliche marinare. Genovesi e Veneziani hanno costruito empori, basi, magazzini in tutta l’area Mediterranea e persino nel Mar Nero. Sono stati gli intermediari dei commerci più importanti e più lucrativi, hanno attraversato per secoli crisi politiche e diplomatiche riuscendo a mantenere una presenza efficace e attiva lontano dalle coste italiane. Nessuna nostalgia per quel mondo che è giusto lasciare nell’ossario della storia. C’è però un elemento, bisogna dire banale, che forse oggi si è perso: i Genovesi e i Veneziani di quel periodo sapevano che il loro mondo non finiva con la loro cittadina o il loro quartiere. Le attività di quelle repubbliche erano tutt’altro che nobili (al contrabbando e all’usura si accompagnavano intrighi e traffici di ogni tipo), ma sapevano che non potevano restare nelle rispettive città e sperare che i problemi restassero fuori dal cancello di casa: detto altrimenti, comprendevano che per avere un’esistenza degna bisogna guardare ad un “altrove” ancora non ben definito e cercare uno spazio in un mondo più grande.

Le questioni sono due: da una parte si è passati da una visione braudeliana della circolarità instabile ad una prospettiva semplificata della tesi di Henri Pirenne, il quale fa del Mediterraneo il campo ove si affrontano due blocchi contrapposti; dall’altra il Mediterraneo vive la sua stagione dei particolarismi.

Il capolavoro braudeliano Il Mediterraneo all’epoca di Filippo II non escludeva ogni considerazione su un’aspra conflittualità tra tutte le forze che si affacciano sul Mediterraneo, ma rimaneva focalizzato su una circolazione di beni e di risorse che non si arrestava con i conflitti, ma anzi si riconfigurava. Al contrario, Henri Pirenne ritiene che l’espansione dell’Islam, già dalle sue prime conquiste, fratturi in mondo insanabile lo spazio mediterraneo: l’Europa carolingia, cristiana e continentale non potrà allora che sviluppare un’economia terrestre e un circuito di scambi che fa del Mediterraneo una periferia.

Oggi, l’immagine mediatica su cui, occorre dirlo, anche l’Unione Europea basa la sua politica mediterranea è quella appunto di un mare inteso come linea di frontiera rivolta contro un mondo caotico e ingovernabile: al di là del Mediterraneo, in questa visione eurocentrista, sottosviluppo, inciviltà, miseria, ingovernabilità sembrerebbero più la regola che l’eccezione, se continuiamo a seguire le suggestioni prodotte dall’attualità. Gli elementi antropologici comuni tra le varie sponde vengono perciò considerati come accidenti e atavismi che non hanno un avvenire: in altre parole, lo spazio mediterraneo è evocato come confine condiviso con continenti da tenere lontani e con popoli da arginare in tutte le maniere. Si usa un vocabolario che pensavamo riservato a quello dei nostri sussidiari quando spiegavano la caduta dell’Impero romano con termini come “invasione”, “barbari”, “minaccia”.

Su questo punto le osservazioni sviluppate da Franco Cassano sono senz’altro pertinenti: i luoghi del Mediterraneo, infatti, vivono la contraddizione tra essere luoghi desiderati per le vacanze e il confort, e luoghi evitati per la vita quotidiana e il business[3]. Il Mediterraneo è quindi ridotto ad una periferia senza avvenire, ad un ambiente da sfruttare come fuga dalla vita accelerata, ma da considerare come una parentesi accettabile solo grazie alle sue caratteristiche geografiche. Nonostante le sue ripetute rassicurazioni, occorre dire che la teoria di Cassano tende di fatto a giustificare il Sud e le sue incongruenze. Egli conserva ancora un’immagine del Sud come società che non si rinnova, ma che, al contrario, persiste nei suoi atavici costumi (lentezza, provincialismo, antimodernismo), utilizzati quasi creativamente come riparo dal capitalismo accelerato ed efficientista.

Ciò nonostante, le questioni non finiscono qui, perché vi è anche la tematica della frantumazione dell’universalismo. Cosa è successo all’Italia? Perché questo spirito di chiusura trionfa? Il processo che attraversa l’Italia è comune a molti Paesi e contesti geopolitici. Non è il caso qui di parlare del populismo e degli estremismi di destra che conosco una diffusione così ampia nel pianeta. Il Mediterraneo, come molte altre aree del mondo, ha vissuto quella che il politologo Regis Debray ha definito «l’universale esplosione dei particolarismi».

Più specificatamente, il trauma si situa nel passaggio dalla compagine imperiale (su tutti quella ottomana, ma anche, occorre dire, quella meno mediterranea dell’impero austro-ungarico) a quella dello Stato-nazione e si ripresenta in maniera ancora più forte nel passaggio dallo Stato-nazione alla micronazionalità e ai tribalismi. Nell’affermarsi, ogni entità politica (nazione, etnia, fazione) si è imposta nello spazio pubblico facendo un uso della differenza di tipo esclusivo e particolaristico: ogni microidentità rivendica la propria estraneità a qualsiasi tendenza unificatrice e coltiva la sua piccola patria a prezzo di esclusioni, di nuove frontiere, di tragedie umane. Dalla fine delle esperienze levantine di Smirne e Salonicco fino alla frantumazione della Jugoslavia, passando attraverso i fallimenti dei panarabismi e la guerra civile libanese, è la logica del settarismo, delle presunte “etnie”[4] da difendere e del filo spinato che ha prevalso. Le drammatiche pagine della sua storia mostrano come le valutazioni di Camus sul Mediterraneo come regno dello «spirito della misura» dominato dalla luce e dal sole, siano più che altro suggestioni letterarie astratte. Il Mediterraneo è il luogo del tragico più che di una razionalità misurata. Il punto è piuttosto quello di affermare un’altra concezione della differenza.

Nel suo capolavoro Breviario Mediterraneo, Predrag Matvejević ci aveva già messo in guardia dalle tendenze centrifughe: il suo pensiero stigmatizza ogni assolutizzazione della particolarità culturale, politica o territoriale, ci ammonisce rispetto ad ogni ricerca a ritroso in un passato esplorato ad uso e consumo delle ideologie presenti, abbandona i miti della “patria” e dell’omogeneità culturale, e, infine, rifiuta la carta identitaria come strumento politico. Nelle parole del pensatore slavo, il pensiero mediterraneo mostra piuttosto una certa idea di praxis: né mosaico di pezzi separati e giustapposti, né vuota unità universalistica, il Mediterraneo esiste come molteplicità di legami silenziosi antropologici e geografici, come intreccio di scambi e di traiettorie. La sua componente essenziale non consiste nell’affermazione di un insieme di identità fisse a livello culturale o nazionale, ma in un complesso di abitudini, di movimenti, di culture ibride.

La particolarità non è quindi un elemento eterno e immodificabile, ma un elemento transitorio che è emerso ad un certo momento della storia. Differenza senz’altro, ma differenza in divenire, mobile, pronta a inserire altre differenze e rivedere i propri circuiti. Basti pensare all’alimentazione e alle abitudini: ad esempio, il pomodoro e il caffè fanno parte delle abitudini affermate e sacralizzate della cultura di Napoli, ma nessuno dei due in origine è un prodotto tipico del territorio dell’odierna regione Campania. Essi vengono da un mondo arabo il primo e dall’oltreoceano il secondo ed entrano a Napoli solo attraverso determinati percorsi presenti in una determinata epoca[5].

Ciò che crediamo autentico e autoctono è in realtà il frutto di una serie di scambi, di negoziazioni, di prestiti, di trasformazioni, da altri luoghi e altri contesti. Il Mediterraneo sarà un’incessante ibridazione o non sarà più. Il suo spirito è quello dell’impuro e del rifiuto delle radici: il Mediterraneo esisterà solo nella continua affermazione e invenzione di intrecci e mescolanze.


[1] M. Bianchini, M. Pagani, F. de André, «Il Mediterraneo è la mia radice», Mucchio Selvaggio, maggio 1984, in C. Sassi, W. Pistarini, De André talk, Coniglio Editore, Roma 2008, pp.267-275.

[2] A. Vanoli, Quando guidavano le stelle, il Mulino, Bologna 2015, p.206.

[3] F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari 1996.

[4] Condividiamo l’opinione di Georges Corm sull’abuso del termine «etnia» come spiegazione dei conflitti politici e geostrategici. La terribile guerra civile libanese non può essere spiegata come conflitto «etnico» in quanto le fazioni in lotta appartengono alle stesse etnie (fatta eccezione per gli sparuti gruppi di armeni e di curdi, ma che hanno un impatto più che marginale sugli eventi bellici). Si veda ad esempio: G. Corm, Contro il conflitto di civiltà, Guerini e Associati, Milano 2016. Lo stesso discorso potrebbe essere realizzato per quanto riguarda la guerra civile che provoca la disintegrazione della Jugoslavia.

[5] I. Chambers, Le molti voci del Mediterraneo, Raffaello Cortina, Milano 2007.

(https://www.pandorarivista.it , 7 novembre 2020)

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