di Betty Varghese
Il libro presenta la differenza qualitativa tra l’intelligenza naturale e quella che impropriamente viene chiamata «intelligenza artificiale» (IA). E lo mostra chiedendo a Gemini – un «programma generativo», in grado cioè non solo di fornire dati, ma di costruire un discorso – di dare indicazioni su come scrivere un libro sull’IA. Il risultato è preciso e dettagliato, ma non originale, «perché può creare solo a partire da quello che è già stato depositato in rete» (p. 4). Ma soprattutto, a differenza dell’IA, i cui composti sono ben noti ai suoi ideatori, la nostra intelligenza rimane tuttora il grande sconosciuto: essa è troppo complessa per essere ridotta a una formula o a un processore; inoltre, ha una storia di lento adattamento e mutazione, durati centinaia di migliaia di anni, mentre le macchine ne contano pochi decenni.Vi sono altre differenze significative. Anzitutto, il libero arbitrio: «Un computer non può decidere né deviare dai modi in cui vengono impiegati i suoi “artefatti”, perché questi dipendono da decisioni dell’uomo. Quest’ultimo, invece, ha subito scoperto usi alternativi […]: una selce scheggiata può servire per tagliare meglio la carne, ma anche come oggetto contundente» (pp. 16 s).Il tema del libero arbitrio rimanda a un’altra peculiarità essenziale dell’uomo: la coscienza, la capacità di dare un corso differente alle cose, reagendo alla casualità degli imprevisti, la caratteristica fondamentale che differenzia l’intelligenza dall’erudizione e dagli automatismi propri delle macchine; queste non hanno bisogno di coscienza, perché funzionano benissimo senza. L’IA procede infatti in modo deterministico, segue cioè pedissequamente passaggi prescritti dal programma, senza deviare da quel percorso. Per l’uomo non è mai così. L’A. porta ad esempio un’operazione aritmetica molto semplice come il calcolo. Ci è molto più familiare sommare che sottrarre, mentre per la macchina è indifferente: «Se un bimbo di tre anni gioca con i mattoncini Lego e vuole fare due colonne lunghe uguali, tenderà ad aggiungere mattoncini a quella più corta e non a toglierli alla colonna più lunga, anche quando quest’ultima operazione sarebbe più conveniente» (p. 63). È un segno del carattere evolutivo e affettivo della nostra intelligenza, che nel passato doveva accumulare risorse per sopravvivere; è la prova che «la mente umana non è determinista, nel senso che è sensibile ai contesti che la vincolano in vari modi» (p. 64). Il che non si può dire di una macchina.Il libro mostra in maniera competente ed efficace il diverso funzionamento delle due intelligenze, e l’inganno e lo spreco di energie nel cercare di compararle. L’IA potrà essere usata nella maniera più proficua non per scimmiottare l’intelligenza umana (la cosiddetta «IA forte», ipotizzata in passato senza ottenere risultati significativi), ma mettendosi al suo servizio per compiere operazioni complesse che richiedono una quantità di dati e memoria ineguagliabili. Tuttavia, le decisioni a livello gestionale, giuridico e medico, devono rimanere nelle mani dell’uomo. Una serie di inedite catastrofi sono dovute all’ingenua pretesa di delegare alle macchine l’ambito decisionale: dall’incidente nella centrale nucleare di Three Mile Island al disastro dei nuovi Boeing 737 Max, dove il computer prese il controllo dell’aereo, impedendo ai piloti di intervenire: «Ancora una volta, però, siamo davanti a un deficit dell’intelligenza naturale degli umani, che hanno progettato un sistema ingestibile in alcuni precisi casi limite, e non a una “colpa” dell’intelligenza artificiale» (p. 86).Questa, per l’A., è la reale posta in gioco: essere consapevoli di chi decide e con quali criteri. È un problema politico, che chiama in causa la trasparenza propria di un governo democratico. Si tratta di tralasciare scenari suggestivi, ma falsi, oggetto più di fantascienza che di scienza (come l’ipotetica dittatura delle macchine sugli umani), per focalizzare l’attenzione piuttosto su possibilità e minacce reali, come la concentrazione nelle mani di pochi di tecnologie ignote alla maggior parte delle persone. Di questi pochi non si conosce l’identità e soprattutto l’uso che faranno dell’immenso potere di cui dispongono. Da qui il rischio, tutt’altro che immaginario, di nuove disuguaglianze tra chi sa e chi non sa. E di nuove schiavitù, molto più sottili e inquietanti di quelle antiche, che provocarono ribellioni come quelle di Spartaco: «Il fatto più grave, a differenza dei tempi di Spartaco, è che questo sfruttamento possa avvenire all’insaputa degli sfruttati che, inconsapevoli e beati, gioiscono di tale sottomissione» (p. 41).
Recensione a Paolo Legrenzi, L’intelligenza del futuro, Mondadori, 2024
(laciviltacattolica.it , 7 agosto 2024)
ACQUISTA IL QUADERNO