La trappola del falso dilemma
Fino a quando si continuerà a contrapporre il diritto al lavoro al diritto alla sopravvivenza, e quindi il salario alla salute, non si troverà alcuna via d’uscita al problema dell’ Ilva. Perché messo in questi termini, più che di un problema si tratta di un dilemma morale. E come sappiamo tutti, un dilemma etico non ha, per definizione, alcuna soluzione. I dilemmi sono drammatici, disperati, senza sbocco. Perché si sbaglia sempre e comunque. Perché quale che sia la decisione che si prenda, si finisce poi sempre col rimpiangere quello che si è detto o fatto. Come il celebre “dilemma di Sophie”, raccontato nel romanzo di William Styron, che racconta di come una giovane ebrea polacca deportata ad Auschwitz con i figli fosse stata perversamente costretta a scegliere dai nazisti quale dei due far morire. Se Sophie non sceglie, moriranno tutti e due. Se invece ne sceglie uno solo, l’altro avrà la vita salva. Da un punto di vista strettamente utilitaristico e matematico, Sophie dovrebbe salvarne almeno uno. Ma come può una madre scegliere quale figlio merita o meno di vivere?
Nel romanzo, dopo alcuni minuti di smarrimento, Sophie deciderà di salvare Jan, sacrificando la piccola Eva. Ma pagherà la decisione presa per il resto della vita, tormentata dai sensi di colpa e dalla disperazione. Perché in fondo, anche se da un punto di vista razionale salvare una vita è meglio che non salvarne nessuna, da un punto di vista esistenziale ed etico esistono scelte che non si possono fare. Come nel caso della scelta impossibile tra salute e lavoro. A meno di non costringere la gente a difendere l’indifendibile: «Preferisco morire tra vent’anni di cancro, piuttosto che tra pochi mesi di fame», si sente oggi dichiarare da certi lavoratori dell’Ilva che hanno paura di perdere il proprio posto di lavoro. «Preferisco morire subito di fame, piuttosto che vedere i miei figli deperire e ammalarsi», rispondono alcuni ambientalisti locali.
In realtà, nel caso dell’Ilva è un grave errore insistere nel presentare il problema in termini di opposizione, se non addirittura di ricatto, tra diritto al lavoro e diritto alla salute. Nonostante le apparenze, infatti, si è di fronte a quello che filosoficamente parlando si potrebbe definire un “falso dilemma”: si assolutizzano i valori chiave in gioco, ossia la salute e il lavoro, mostrando che l’uno si oppone inesorabilmente all’altro, e che l’unico modo per uscire dall’impasse è quello di sacrificarne uno dei due. È la tecnica argomentativa dell’aut-aut.
Per concludere cinicamente che “tertium non datur”. Con tutti i drammi nessi e connessi. Come in fondo accade ogni qualvolta ci si trovi di fronte ad una scelta secca, impossibile, disumana. Eppure i progressi della tecnologia e l’esempio di molti altri paesi europei mostrano che non c’è alcun bisogno di contrapporre salute e lavoro. Anzi, il lavoro e la salute vanno di pari passo, come ha ribadito ieri il ministro dell’Ambiente Clini: non ha alcun senso opporre risanamento ambientale e produzione di acciaio perché è proprio grazie alla partecipazione attiva dell’Ilva che si potrà procedere al risanamento degli impianti.
Certo, la decisione del 10 agosto del gip di Taranto Patrizia Todisco di bloccare la produzione in attesa della bonifica sembra ancora una volta ribadire il fatto che, con l’Ilva, ci si trova di fronte proprio ad un dilemma. Non è un caso che le polemiche siano subito ripartite. Per il presidente dei Verdi e per Antonio di Pietro, ad esempio, i magistrati starebbero solo facendo il loro dovere difendendo il diritto alla salute. Per i difensori ad oltranza del-l’attività economica, la decisione del gip sarebbe invece la prova del fatto che l’Italia non offre alcuna chance allo sviluppo industriale, e che non sarebbe altro che un paese “antiquato e pittoresco”, per utilizzare, estrapolandoli, i termini del New York Times.
Ieri il governo ha ufficializzato il ricorso alla Consulta aprendo un conflitto con la magistratura pugliese. Ma quando il dibattito si polarizza in questo modo, è difficile trovare una soluzione, proprio perché tertium non datur.
Speriamo allora di uscire da questo “falso dilemma” e ritrovare la via della ragione, invece di cedere alle sirene della dialettica sofista. Non solo per salvare al tempo stesso il lavoro e la salute, ma anche per evitare che, in nome della salvaguardia dell’ambiente, sia proprio l’ambiente ad essere sacrificato. Chi può essere così ingenuo da pensare che un problema come quello del risanamento ambientale di zone già fortemente danneggiate possa essere preso in considerazione e risolto se l’Ilva cessa ogni attività? È solo un esempio. Che non deve far perdere di vista la necessità di portare avanti un’attività e una produzione sostenibile. Ma talvolta la filosofia del senso comune permette, molto più dell’idealismo, di non cadere nella trappola dei falsi dilemmi che, quasi sempre, finiscono in tragedia.
(“La Repubblica”, 14 agosto 2012)