La sera andavo al Colle, nell’oasi segreta di Pertini

di Eugenio Scalfari

Escono i diari postumi di Antonio Maccanico sugli anni al Quirinale col presidente. Nella prefazione Scalfari ricorda i dialoghi a tre dell’epoca: tra leggerezza e drammi.

Eravamo molto giovani quando ci conoscemmo. Ci piacevano le ragazze ma a quell’epoca non era facile farci l’amore, le portavamo al cinema o nelle sere di bel tempo a spasso nei parchi romani, Villa Borghese, il Pincio, il Gianicolo, qualche bacio e i desideri dell’età che però restavano insoddisfatti.
Poi ci raccontavamo le nostre imprese infiocchettandole di particolari inesistenti. Eravamo nati lo stesso anno, il 1924, lui in agosto ad Avellino, io a Civitavecchia in aprile.

Se fosse vivo starebbero per scadere i novant’anni per lui, ma purtroppo se ne è andato da quasi un anno e ne ha fatte di cose nella sua lunga vita. Le nostre carriere sono state molto diverse ma si sono spesso intrecciate e la nostra amicizia è diventata sempre più intima. Conoscemmo le stesse persone, votammo quasi sempre per lo stesso partito, almeno fino a quando visse Ugo La Malfa.

Nel frattempo e indipendentemente da lui diventai amico di Adolfo Tino, allora capo dell’ufficio legale di Mediobanca e molto legato a Cuccia e a Raffaele Mattioli. Soltanto dopo qualche mese seppi da Adolfo che Antonio era suo nipote, figlio di una sorella.

Ma l’amicizia con Tonino diventò fraterna durante i sette anni che lui passò al Quirinale, segretario generale del capo dello Stato Sandro Pertini. La Repubblica era stata fondata da poco più di due anni quando Pertini fu eletto Presidente. Lo conoscevo da tempo e in qualche modo partecipai alla sua elezione esortando Berlinguer, insieme a Rodano, affinché i voti del Pci convergessero su di lui. Da allora Pertini diventò una persona di famiglia non solo per me ma anche per il giornale che dirigevo. Era impetuoso e generoso, Sandro Pertini; le formalità del cerimoniale gli erano del tutto sconosciute. Seguiva il suo carattere, i moti dei suoi sentimenti senza alcun calcolo di convenienza politica né compromessi. Veniva dall’emigrazione antifascista e dalla guerra partigiana della quale era stato uno dei capi. Si fidava solo di Tonino che l’ha protetto e guidato ininterrottamente per sette anni. Non era facile guidare un uomo come Pertini, specie da quando aveva assunto la più alta carica dello Stato, e non era facile proteggerlo dal suo carattere, dalle decisioni che prendeva più col cuore che con la testa e che attuava immediatamente. Ma Tonino ci riuscì dedicandogli tutto se stesso.

I colloqui con Pertini al Quirinale erano frequenti e avvenivano sempre con la presenza di Tonino. Non c’era mai un tema specifico, Pertini aveva spesso il desiderio di riposarsi e lo faceva parlando con due amici dei quali si fidava. Gli argomenti era naturalmente lui a proporli: giudizi, ricordi, qualche pettegolezzo e noi lo seguivamo con leggerezza, umorismo reciproco e anche analisi e pensieri che aiutavano il Presidente a riprendere forza e allegria. I tempi, si sa, erano terribili. Moro era stato rapito in quei giorni e quei mesi di prigionia occupavano le nostre conversazioni. Un giorno Pertini ci domandò: «Che cosa fareste se vi trovaste prigionieri di terroristi assassini?». E, anticipando le nostre risposte, disse: «Io non avrei mai scritto lettere ad amici e familiari come fa Moro e la ragione è evidente: lui crede nell’aldilà e quindi vorrebbe sopravvivere a questa orribile prigionia e continuare a far del bene al paese. Ma io non ho la fede nell’aldilà e quindi la sola cosa che mi importa è di preservare la mia immagine. Le lettere che lui scrive i suoi carcerieri le leggono prima di spedirle; quest’intrusione io non l’avrei mai sopportata». Ma poi, conclusa drammaticamente quella terribile vicenda, i nostri incontri ripresero il tono di sempre.

Gli anni passavano. Ci fu la strage alla stazione di Bologna e il discorso del sindaco Zangheri. Quando cominciò a parlare la piazza, gremita e ribollente di furore contro le autorità che secondo i bolognesi non avevano compiuto i controlli che forse avrebbero evitato quell’evento tragico, coprì le parole di Zangheri con una selva di fischi sebbene il sindaco non c’entrasse per nulla nei controlli non effettuati. Pertini era seduto sul palco accanto a Zangheri che stava in piedi al microfono. Il Presidente si alzò, si avvicinò al sindaco e gli mise una mano sulla spalla. I fischi cessarono immediatamente.

La morte di Berlinguer fu un altro dei tanti episodi di quel periodo, tra i più agitati della storia italiana. Tonino mi avvertì al telefono che il Presidente stava partendo da Padova per Verona: andava a prendere con un aereo militare la salma del leader comunista e così fece. Arrivati a Roma seguì il feretro al funerale tra una immensa folla piangente e non soltanto comunista. Fu un momento di commozione nazionale.

Infine arrivò la scadenza del settennato presidenziale, ma Pertini sperava di essere rieletto. Debbo dire che da qualche tempo non mi sembrava che fosse sereno, la scadenza l’aveva fortemente turbato ed esibiva il suo turbamento in modo molto improprio. Tonino aveva dovuto raddoppiare i suoi sforzi per evitare quelle esibizioni assai dannose al ricordo e all’affetto che gran parte degli italiani avevano verso Pertini. La soluzione che venne in mente a Tonino per indirizzare il bisogno che Pertini aveva di comunicare pubblicamente il suo desiderio d’esser riconfermato fu di portarlo da noi, accoglierlo nel mio ufficio con i vicedirettori del giornale e farlo sfogare lì, in quella stanza, con amici che avrebbero conservato il massimo riserbo. E così avvenne due o tre volte, Tonino l’accompagnava, noi l’accoglievamo e lui parlava a lungo delle sue speranze. Noi comprendevamo ma suggerivamo che non era questa la via per lasciare dei suoi sette anni di presidenza il ricordo che meritavano. Alla fine si convinse che il suo congedo era necessario e riacquistò la lucidità di mente e la dignità che l’avevano sempre assistito in tutta la sua vita.

La carriera di Tonino al Quirinale continuò con Cossiga ma durò soltanto due anni. Tonino aveva capito che Cossiga voleva con sé un uomo suo e Tonino anticipò quel desiderio dando le dimissioni per ragioni private. Nel frattempo lo zio Adolfo era morto e Cuccia e lo staff di Mediobanca pensarono a Tonino come il miglior successore. Accettò e la sua vita svoltò dalla politica al mondo bancario ed economico. Quei due anni ci sentimmo di rado e a lui la politica mancava. Nell’88 De Mita lo invitò nel suo governo affidandogli il dicastero per gli Affari regionali e i problemi istituzionali così tornò a Roma e i nostri rapporti ridivennero frequenti come un tempo.

Non starò qui a seguire la sua carriera politica che in quegli anni fu intensissima. Nel ’96 ebbe addirittura l’incarico da Scalfaro di formare un governo che però non ottenne la maggioranza necessaria. Seguirono le elezioni e il governo Prodi, nel quale entrò come ministro delle Poste e delle telecomunicazioni. Successivamente, nel ’98, entrò nel governo D’Alema come ministro delle Riforme istituzionali necessarie per modernizzare lo Stato che ne aveva grandissimo bisogno. Purtroppo la nostra classe dirigente non è ancora riuscita a distanza di molti anni ad attuare quella modernizzazione pur essendo ben consapevole della sua necessità.

Tonino è stato per me una lunghissima e grande amicizia e credo che anch’io lo sia stato per lui. Tra spiriti liberi come eravamo non sono mancate differenze ed anche qualche dissenso sul da fare. Ora per l’ennesima volta siamo di fronte a una curva nella storia del paese. Purtroppo non posso alzare il telefono e sentire la sua voce e il suo pensiero e questo mi manca molto.

(“La Repubblica”, 4 giugno 2014)

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