La Resistenza delle donne

di Lidia Bellodi

Era il 18 febbraio del 1945, l’appuntamento era per le 10 di mattina in piazza. Fu lì che trovai le donne. Si avvicinò la mia amica Silvana: «Dobbiamo fare una cosa noi donne mi disse però bisogna avere pazienza e stare attenti con chi si parla, perché questa cosa deve riuscire. Avvicina le persone per bene, che sai come la pensano, e chiedi di fare un po’ di passaparola, perché la cosa si allarghi, perché dovremo essere in tante.» E fu così che tutto cominciò. Con tanta titubanza e tanta paura fu così che quella domenica mattina, il 18 febbraio, ci trovammo verso le dieci. Fu anche difficile per me uscire, dovevo raccontar bugie a mia madre, perché in casa nessuno sapeva che facevo parte di questa organizzazione. Insomma, quel mattino, in tre, io, Silvana e Vittorina Dondi, che abitava a Ospitale sulla strada che porta a San Biagio verso la foce del Po, siamo partite. (…) E fu così: lei con un cartone con scritto sopra «Vogliamo pane, abbiamo fame, basta con la guerra!», siamo partite. (…)
Quando siamo arrivate in piazza eravamo in tante, e si vedeva da lontano, perché la piazza è grande, da là in fondo, si vedeva che la gente arrivava, arrivava dai vicoli come abbiamo fatto noi, da un’altra discesa che sbuca in piazza. (…)
Era domenica mattina, c’era solamente un gruppetto di uomini davanti al tabaccaio Gatti, erano i contadini che venivano in piazza. Mi ricordo che erano sbalorditi perché non sapevano cosa stesse succedendo. Non so se la porta del Comune era stata manomessa da qualcuno, so solo che siamo riuscite a sfondarla e poi su a precipizio per le scale! Abbiamo riempito il Comune di donne. (…) Al terzo piano c’erano le donne che buttavano fuori dalla finestra tutto quanto, le scrivanie, le carte… c’era il putiferio. Ho detto: «Silvana, ma se arrivano i fascisti, vengono dentro e ci ammazzano tutte!». (…) Mi ricordo che siamo scese e siamo andate al primo piano: c’era una porta con un bell’ambiente largo pieno di scaffali con dei libri, i libroni dell’Anagrafe. E Silvana gridava: “Quelli, son quelli! Aprite le finestre, buttateli giù che andiamo giù!”.
(…) Silvana si mise a strappare le pagine, ma erano dure e non ce la faceva. Allora Vittorina prese un mazzo di fogli… «Lidia, Lidia, accendi!» “Accendi?” ho detto. «Ma nessuno mi ha detto di prendere dei fiammiferi? Con che cosa li accendo, adesso? ». Fu lì che da un vicolo spuntò un ragazzo che mi butta una scatolina di cerini. I cerini a quei tempi! Allora abbiamo acceso questi libri. Intanto che il falò arde ecco che arriva, da via De Amicis, un fascista di corsa con un fucile impugnato. Siamo scappate. (…) Iniziò il caos degli urli, degli spari. (…) Siamo tornate a casa da dove siam venute. So che hanno picchiato e ferito tre donne e ne hanno arrestate una decina. (…) Tutti avevamo paura. Il bello è che c’erano le scritte «State attenti, il nemico vi ascolta». Per me i nemici erano loro. (…)
In quello stesso periodo mio marito era stato arrestato e doveva essere fucilato. Ma arrivarono gli inglesi due giorni prima, della fucilazione. Noi eravamo in un rifugio sotto un filare. Eravamo lì dalla sera prima, tutti quanti, perché Silvana era venuta a dirci che sarebbero arrivati gli alleati. Eravamo in tre famiglie con tanti bambini. Mia madre era incinta. Mi ricordo che aveva fatto un sacco di pane abbrustolito, l’aveva biscottato nel forno, e l’aveva messo in un sacco bianco. Stavo per raccontare una favola ai bambini, lì al buoi, quando sentiamo un Vooom Vooom. Mia sorella scatta: «Io voglio andare a vedere cosa c’è», dice. «Non ti sognare di andare fuori!» dice papà. La prende per una gamba, ma lei rientra dentro con la testa e dice: «Papà, papà vuota il sacco del pane perché voglio fare la bandiera bianca! Ci sono i carri armati che stanno arrivando! Ma sono tanti!».E meno male che ha avuto il coraggio di uscire a guardare perché stavano per passare sopra di noi e saremmo morti tutti come topi. Ci ha salvati mia sorella. E il nonno, mi ricordo, disse: «Ci hanno mitragliato la casa». Non vedevano bene, perché era nascosta dai pollai e pensavano che ci fossero i tedeschi. E così fu l’arrivo, fu la liberazione. Avevamo la casa a pezzi ma c’eravamo tutti: «E lascia che sia! Ci siamo tutti. Siamo in tanti, in questa casa, e ci siamo tutti».
E fu così.

(“L’Unità” 10.11.’13)

 

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