La polemica tra Gerhard Kittel e Martin Buber durante l’ascesa di Hitler. Terra e popolo

di Cristiana Dobner

L’editrice Edb, dando alle stampe La questione ebraica. I testi integrali di una polemica pubblica a firma di Gerhard Kittel (il benemerito curatore del prezioso e monumentale Dizionario teologico del Nuovo Testamento) e di Martin Buber, dimostra un notevole coraggio (Bologna, 2014, pagine 169, euro 15). Indispensabile per la comprensione di un testo e di un periodo storico complesso, intricato e di grande sofferenza, risulta l’introduzione a firma di Gianfranco Bonola che guida con mano sicura nei meandri e nei baratri che, nel susseguirsi delle pagine, continuano ad aprirsi e a rendere difficile un giudizio sereno sull’opera e sull’autore.
I problemi sollevati sono onerosi: culturali, religiosi e umani. Chiunque presti l’orecchio o sia coinvolto nel dialogo ebraico-cristiano non può ignorare questo testo. Lo stesso momento storico della stampa è arduo: 1933. Adolf Hitler era salito al potere il 31 gennaio, le misure repressive contro gli ebrei ormai erano più che evidenti. In questo stesso anno Edith Stein — che si considerava cittadina tedesca colma di amore per la patria e non ebrea assimilata — espulsa dall’insegnamento all’Accademia di Münster non trova più sbarrata la via per entrare nel Carmelo. «Negli ultimi mesi — scrive in Dalla storia di una famiglia ebraica, una ricerca che da tempo conduceva sui suoi antenati e sul suo nucleo familiare — i tedeschi ebrei sono stati strappati dalla tranquilla ovvietà dell’esistere. Sono stati costretti a riflettere su loro stessi, sul loro essere e sul loro destino».
Il contesto storico, analizzato da ricercatori affidabili con indagini di alto rilievo documentario «può essere convenzionalmente diviso in due periodi: l’epoca del potere di Bismarck e i decenni a cavallo del secolo fino alla prima guerra mondiale» (Riccardo Calimani).
Qualche accenno alla realtà della Germania sarà utile per inquadrare le pagine di Gerhard Kittel e la reazione suscitata. Il deputato Hermann Ahlwardt nel 1895, in occasione di un progetto di legge presentato al Reichstag dal gruppo antisemita, poté tranquillamente pronunciare la seguente espressione: «Un cavallo nato in una stalla di vacche non diverrà mai, per questo, una mucca; un ebreo nato in Germania, non per questo è un tedesco; rimane ancora un ebreo».
Nel gennaio 1916 Walther Rathenau scriveva a un amico «non mi riconosco altro sangue, altra discendenza o altro popolo, se non quello tedesco. Mi si scacci dal suolo tedesco e io rimarrò tedesco e nulla sarà diverso da prima. Tu parli del mio sangue, della mia ascendenza, persino del mio popolo intendendo gli ebrei. A loro mi unisce ciò che unisce a loro ogni tedesco: la Bibbia, il ricordo delle figure del Vecchio e del nuovo Testamento. I miei antenati e io stesso ci siamo nutriti del suolo e dello spirito tedesco e abbiamo restituito al nostro popolo, il popolo tedesco, tutto quello che le nostre forze ci hanno permesso».
Gli ebrei tedeschi, in realtà, scrive Victor Marchetti «erano in maggioranza tedeschi ebrei». Come rileverà successivamente lo studioso Wolf Gunther Plaut negli Stati Uniti, «si dicevano americani-ebrei e non ebrei-americani, uno specchio diretto del loro passato. Perché anche nella terra del kaiser pure erano stati tedeschi-ebrei e non ebrei tedeschi».
Kittel, in apertura al suo saggio — in realtà un pamphlet — afferma la serietà della questione, pone in evidenza i fatti storici e propone quattro soluzioni; passa successivamente al problema dell’assimilazione ebraica per delineare la sua proposta. E Bonola annota: «Nel corso della trattazione emergono anche valutazioni e apprezzamenti che ci consentono di tratteggiare sommariamente il punto di vista di Kittel sull’ebraismo a lui contemporaneo. E di intravedere la sua linea d’attacco: le rigorose misure che propone sono in realtà contro “l’ebraismo dell’assimilazione, depravato e ritenuto infedele alla sua propria missione, scollegato ormai dalla storia dell’autentico ebraismo” e dovrebbero invece innescare un’azione sinergica con quella di “un ebraismo autentico e devoto, nella misura in cui questo è ancora presente nel mondo”. Grazie a tali provvedimenti l’ebraismo intero verrebbe infatti “costretto dai suoi pretesi nemici a rammentarsi di se stesso e a percorrere di nuovo il cammino che gli viene indicato dalla storia e dalla tradizione che esso stesso ritiene sacre”».
Kittel, studioso autorevole e specialista nelle pubblicazioni sul rapporto fra ebraismo e cristianesimo nascente, in cui si palesava come liberale e o moderato, il 1° maggio 1933 aderì al Partito nazionalsocialista e quindi si schierò con il movimento dei cristiano-tedeschi, da cui però prenderà le distanze già nel novembre successivo.
Con il suo pamphlet Kittel ha tentato di fondare teologicamente la posizione che aveva assunto, come dirà poi nel corso del procedimento di denazificazione, quando per difendersi affermerà di aver agito «nel tentativo di influenzare l’impianto complessivo della politica nazionalsocialista verso gli ebrei allo scopo di mitigarne i tratti violentemente aggressivi». In realtà, si compromise politicamente con l’ideologia nazista, perché la circolazione delle idee e i fatti susseguenti in Germania alle leggi del 1933 non erano più antiebraici ma antisemiti, e la lettura odierna del libello dimostra come Kittel si collochi in quella atmosfera culturale, ideologica e retorica. Non aveva capito in pieno quello che era stato il sentire e l’operare dei tedeschi ebrei durante il regime nazista.
Hannah Arendt non conobbe ambiguità: «Ho sempre considerato la mia ebraicità come uno di quei dati di fatto indiscutibili della mia vita che non ho mai desiderato cambiare o ripudiare. Esiste una sorta di gratitudine di fondo per tutto ciò che è così come è; per ciò che è stato dato e non è, né potrebbe essere, fatto».
Buber nella sua risposta a Kittel, come rileva Bonola, intende «confutare recisamente le interpretazioni interessate, anzi i veri propri stravolgimenti, a cui l’ebraismo viene sottoposto con la sua lettura unilaterale in prospettiva cristiana». Una dimostrazione di quell’atteggiamento mentale e spirituale che nell’introduzione viene criticato: «Il cristiano Kittel si dichiara giudice competente a decidere circa la natura vitale o diventata sterile della religiosità degli ebrei ortodossi». Ed Ernst Lohmeyer, teologo evangelico, scrivendo a Buber precorre i tempi del Vaticano II: «Spero che Lei sarà d’accordo con me sul fatto che la fede cristiana è cristiana soltanto finché porta nel cuore quella ebraica».

(“L’Osservatore Romano”, 11 settembre 2014)

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