La causa assente: tempo e lavoro all’epoca del coronavirus
di Fabio Vighi
Nell’accelerare il processo implosivo del capitalismo globale, Covid-19 ci permette di toccare con mano il vuoto attorno a cui pulsa l’ormai sterile dialettica del capitale. Silenzioso e invisibile, il virus che oggi paralizza le nostre società contiene un piccolo frammento utopico proprio nell’incarnare il ‘grado zero’ della nostra condizione. A margine di sempre più improbabili resurrezioni neo-keynesiane o (peggio) neoliberiste, si avvicina una resa dei conti che converrebbe affrontare con spirito autenticamente critico piuttosto che (fingere di) ignorare.
Pensare di poter fare ‘buon uso’ del Covid-19 è senz’altro un’illusione, oltre che offensivo per chi – come sempre le fasce sociali più deboli – muore, soffre e si appresta a fronteggiare una recessione devastante. Tuttavia, dobbiamo ammettere che il virus ci consegna un oggetto sempre più raro nella nostra epoca, ovvero un tempo almeno parzialmente liberato dalla ‘passione conformistica’ che ci lega al nostro mondo. Improvvisamente diventa possibile, in un certo senso inevitabile, sottrarci agli imperativi (o ‘aperitivi’) categorici che regolano le nostre vite. Alla fissità dello spazio in cui siamo costretti fa da contraltare una temporalità svincolata dai regimi di comportamento coattivo del turbocapitalismo post-industriale. Volente o nolente siamo obbligati a fermarci e ad ascoltare il silenzio di un mondo che, almeno per ora, non ci appartiene più.
1. L’evento-trauma
Se l’evento-coronavirus non può che essere percepito come trauma da intere popolazioni assoggettate alla disciplina economico-esistenziale del capitale, dobbiamo ugualmente provare a far tesoro dell’esperienza dello scacco. Questo per due motivi preliminari: innanzitutto, perché il lavoro che a molti è stato tolto per decreto era già messo maluccio prima del coronavirus; e poi perché, nell’immediato, l’alternativa allo stallo è cedere agli impulsi sadistici di chi non vede l’ora di rispedirci tutti sul posto di lavoro – o, almeno, tutti quelli che il lavoro ancora ce l’hanno. Com’è noto, la salute dell’economia conta molto di più della salute di chi conta quasi nulla per l’economia, o peggio di chi per essa è solo zavorra. Non possiamo dunque farci illusioni: il capitale non si è mai commosso di fronte ai suoi ‘effetti collaterali’. Leggere Mario Draghi, l’uomo della provvidenza (e di Goldman Sachs), che invoca le virtù del debito pubblico come soluzione alla “guerra” economico-virologica,[1] non può destarci particolare stupore o tripudio, se solo consideriamo come in questi giorni anche i più accaniti liberisti, di fronte al virus, si son dati alla macchia. Ma anche qualora lo Stato fosse richiamato in causa nelle vesti dismesse di angelo custode di politiche economiche espansive (il che è ancora tutto da dimostrare), si tratterebbe di una piccola pezza a fronte di un’emorragia dalle proporzioni bibliche. Senza dimenticare per un secondo che la funzione principale dello Stato moderno è assecondare la competizione di mercato, non certo quella di promuovere cooperazioni internazionali o comunitarie.
Eppure, dicevamo, l’incepparsi di quell’immensa catena di montaggio che è il capitalismo globalizzato può aprire un piccolo squarcio nella fitta coltre ideologica che ci rende complici di un meccanismo riproduttivo divenuto tossico. In fondo, non è attraverso lo scacco, la sottrazione a un determinato ordine di cose, che il nuovo, anche solo come semplice intuizione di un futuro radicalmente diverso, può germogliare? Solo grazie a un piccolo o grande trauma possiamo svegliarci dal sonno ideologico che rende le nostre vite mere appendici di un anonimo dispositivo che pompa plusvalore, e nel farlo finisce per distruggere tutto ciò che gli si para davanti, incluso sé stesso. Il regime di libertà vigilata cui siamo costretti ci mostra quanto perversamente passiva sia, in realtà, la nostra febbrile partecipazione a un modello socio-economico lanciato speditamente verso il proprio collasso. In altre parole, il virus ci balena l’immagine del nostro potenziale affrancamento dal dover godere, che è sempre un dover godere per conto del capitale. Riflettere sul trauma del Covid-19 significa provare a emancipare la nostra esistenza da quelle forme di godimento perverso che ci assoggettano al dogma del produttivismo. Per quanto la politica si stia affrettando (vuoi rispolverando vecchie soluzioni eugenetiche, vuoi attraverso i colpi di bazooka delle banche centrali) a nascondere la contraddizione sistemica che la pandemia non ha causato ma di certo ha accelerato, abbiamo oggi un’occasione inedita per immaginare un futuro più solidale oltre la logica del profitto.
Walter Benjamin scrisse che, diversamente da quanto pensava Marx, le rivoluzioni non sono necessariamente “la locomotiva della storia mondiale”. Piuttosto, sono “il ricorso al freno d’emergenza da parte del genere umano in viaggio su quel treno”.[2] Se oggi la preoccupazione principale della politica sembra essere quella di far ripartire la locomotiva produttiva globale – preoccupazione legittima, per un mondo che si sa riprodurre solo consegnandosi alla propria valorizzazione economica – l’impasse attuale ci solleva almeno dall’obbligo superegoico del dover partecipare a tutti i costi. Chiunque si pone criticamente nei confronti del capitalismo – e, sottolineo, che può permettersi di farlo in questi giorni così drammatici – non può lasciarsi sfuggire l’opportunità di una riflessione a tutto campo su cos’è in gioco in un mondo tenuto sotto scacco da un virus partorito dal ventre ipertrofico del ‘più efficiente sistema economico che ci sia dato conoscere’.
In questo senso, non si può dire che le reazioni da sinistra alla crisi da coronavirus siano mancate. Le possiamo riassumere in quattro distinte categorie: 1) La risposta biopolitica, per cui il pericolo sarebbe la limitazione delle libertà personali attraverso l’esercizio dello stato di emergenza; 2) La risposta anti-liberista, per cui il nemico sarebbe il capitalismo finanziario appoggiato da formazioni politiche che nel corso degli ultimi decenni hanno criminosamente smantellato lo stato sociale, e in particolare la sanità pubblica; 3) La risposta apocalittica, per cui il virus non farebbe che accelerare la tendenza implosiva della globalizzazione, anticipando scenari via via sempre più cupi; e 4) La risposta rivoluzionaria, per cui la crisi aprirebbe la possibilità concreta di una transizione al socialismo. Per quanto vi siano opinabili gradazioni di plausibilità in tutte queste posizioni, vorrei provare a tracciare una riflessione che metta in diretta correlazione lo stato di straniante sospensione ontologica in cui ci veniamo a trovare, e il cuore pulsante di un modo di produzione che ritengo prossimo a raggiungere la sua data di scadenza, come uno yogurt qualsiasi. Detto diversamente, credo che il virus ci stia rivelando non tanto i biechi propositi di regimi biopolitici (controllo totalitario delle vite umane) o finanziari (avidità neoliberista contrapposta a redivive ricette neo-keynesiane), ma nientedimeno che il vuoto attorno a cui vortica – sempre più spompata – la puleggia della dialettica capitalista. Provo a spiegarmi.
2. Le pecore di Chaplin e il tempo perso
Innanzitutto, non possiamo limitarci a pensare che il neoliberismo, per come si è affermato negli ultimi quarant’anni, sia la deviazione perversa di un sistema che tutto sommato funzionava. Piuttosto, la finanziarizzazione dell’economia fu la risposta stricto sensu necessaria del capitale alla crisi sistemica di profitto che a partire dagli anni ’70 cominciò a minare le basi dell’economia reale. L’abolizione di lavoro astratto (salariato), senza possibilità di reintegrarlo agli stessi livelli occupazionali, diventa infatti sempre più pressante a partire dalla terza rivoluzione industriale (microelettronica, informatica, digitalizzazione), mentre oggi, agli albori della quarta (intelligenza artificiale), il processo di distruzione della sostanza del valore (il lavoro vivo, appunto) appare ormai irreversibile. Se è indubbio che di questi tempi l’industria finanziaria brilli di luce propria, per comprendere le motivazioni della sua informe espansione dobbiamo dunque collocarla nella piega del modo di produzione originale. Parafrasando Marx,[3] potremmo dire che l’anatomia della finanza è la chiave per comprendere l’anatomia dell’economia reale. Il capitalismo finanziario rivela cioè il meccanismo elementare attraverso cui l’economia acquisisce efficacia sociale nel mondo moderno. Come? Nel perseguire una logica compulsiva e autotelica, i giochi di prestigio della finanza (denaro che magicamente crea altro denaro) ci svelano il sotterfugio che anima il modo di produzione capitalista, dove il lavoro salariato è impiegato come presupposto del ciclo di accumulazione, il ‘fattore umano’ che ha il compito di mettere in moto, e tener lubrificato, il motore produttivo dell’economia capitalista. Da qualche tempo, però, questo elementare meccanismo produttivo s’è inceppato in concomitanza con la crescita esponenziale dell’automazione e conseguente ‘disoccupazione (e sottoccupazione) tecnologica’, condannando così l’economia reale a una continua e inarrestabile crisi di profitto. Ma andiamo con ordine.
Il capitale non è un oggetto empirico (denaro, mercato, banche, singole imprese, ecc.) e dunque lo si può comprendere solo come capitalismo, cioè come legame che socializza chi compra e chi vende forza-lavoro. Il capitalismo è un rapporto sociale e una formazione storica. Esiste come mediazione istituzionalizzata di denaro che compra lavoro, e di lavoro che produce valore per creare altro denaro, che a sua volta compra altro lavoro per produrre altro valore, in una spirale teoricamente infinita. Questa dialettica, oggi aggressivamente dissolta e insieme presa in consegna dai mercati finanziari, che vanno direttamente al sodo bypassando il lavoro, ha un’origine ben precisa. Storicamente, la narrazione capitalista s’instaura grazie a una transizione sistemica che concerne, tra le altre cose, il mutamento del ruolo del denaro. Per amor di brevità, sintetizziamo attraverso Marx che cita Aristotele:[4] si tratta del passaggio dall’economia pre-capitalista, ove il denaro è mediatore di merci (M-D-M’), alla crematistica, l’arte di far soldi, per cui il denaro s’infatua narcisisticamente di sé stesso, scatenando quell’impulso all’auto-espansione che abbiamo imparato a chiamare capitale, e che dipende dalla ‘razionale’ mediazione della merce-lavoro (D-M-D’). Quest’ultimo è infatti l’ingrediente speciale che permette al denaro di lievitare in capitale. In termini filosofici, diremmo che il capitalismo è una totalità logica e dialettica in cui capitale e lavoro rappresentano due facce della stessa medaglia. Rispetto a questa correlazione, dobbiamo tornare a chiederci quale sia il ruolo del lavoro.
Nell’affidarci alla dialettica speculativa di Hegel, senza il quale di certo non avremmo il Marx dei Lineamenti e del Capitale, cioè il Marx che conta (in tutti i sensi), partiamo con l’osservare che il lavoro è retroattivamente sedotto dal denaro che vuol farsi capitale. Il denaro utilizza il lavoro come ‘personaggio in maschera’, invitandolo al gran ballo del padrone capitalista. Marx però finisce per misconoscere il ruolo costitutivo del denaro-capitale che sussume retroattivamente la forza-lavoro. Ovvero sottovaluta ciò che Hegel chiama Setzung der Voraussetzungen, la figura dialettica del ‘porre le presupposizioni’. In estrema sintesi, diciamo che per affermarsi come sistema il capitale deve porre il lavoro (il lavoro salariato, quantità astratta di tempo di lavoro) a presupposto narrativo e condizione di possibilità del proprio (del capitale) maestoso incedere. Pensiamo al montaggio delle prime tre inquadrature di Tempi moderni di Charlie Chaplin, del 1936. Il film inizia con l’immagine di un enorme orologio che copre l’intero schermo, con la lancetta dei secondi a scandire il passare del tempo; a questa immagine fa seguito l’inquadratura dall’alto di un fitto gregge di pecore che corrono ordinate nella stessa direzione, che si dissolve poi nell’inquadratura di una folla di operai che tracimano dalla metro per dirigersi frettolosamente verso i cancelli della fabbrica. Per la proprietà transitiva, la modernità (fordista, ma non solo) è plasticamente raffigurata da Chaplin come specifica modalità di regimentazione animale (gli ovini) attraverso la misurazione del lavoro: il lavoro conta (per il capitale) solo nel momento in cui può essere contato attraverso il culto profano del tempo di lavoro, da cui viene distillato quel tempo di pluslavoro che va a formare il plusvalore, e da lì il profitto.[5] Nel capitalismo tutto ciò che non è tempo di lavoro è fondamentalmente tempo perso, o tempo che serve a prepararsi a vendere o comprare lavoro. È esattamente questa, oggi, la preoccupazione dei nostri capi di stato e esperti di politica economica: stiamo perdendo tempo.
3. Sedotto e abbandonato: l’invenzione del lavoro
Ma tornando al Moro di Treviri, fino a che punto possiamo concordare con lui che il lavoro è la ‘sostanza del valore’? A mio avviso non è corretto asserire che il lavoro è una capacità produttiva autonoma sfruttata dal capitalista. Piuttosto, per come lo conosciamo, il lavoro cosiddetto astratto è l’invenzione epocale attraverso cui il denaro pone sé stesso come altro da sé (lavoro salariato o ‘capitale variabile’) per potersi auto-determinare in capitale. La parola ‘invenzione’ dev’essere presa alla lettera: si tratta di vera e propria autopoiesi, per cui il denaro fuoriuscito dagli schemi del modo di produzione feudale diventa capitale in quanto effetto che si auto-causa. Secondo Hegel, la storia del mondo è ragione auto-causata e auto-realizzata (Vernunft):[6] la storia si esplicita cioè nella capacità della ragione (o dello Spirito) di auto-organizzarsi partendo dalla propria inconsistenza. Ciò significa che possiamo affermare la causa del nostro agire solo sulla base dell’assenza della causa, ovvero della radicale contraddittorietà e infondatezza di tutto ciò che è.
Questo orientamento controintuitivo ci invita, innanzitutto, a pensare il rapporto causale tra la disfunzionalità di un ordine normativo e la nascita del nuovo. Ma in realtà è già così per ogni cosa che esiste: il trauma è per definizione inerente alla norma. Camminare è l’altro lato della caduta, così come nuotare è un effetto dell’andare a fondo, e vivere comincia a avere un senso per noi umani solo in risposta al sentimento della morte. La vita è dunque in perenne equilibrio sulla sua mancanza di senso, che pure continua a definirla. E lo stesso vale per il capitalismo. Affermare che il capitale è causa sui, significa dire che è l’effetto di una causa (il lavoro astratto) che lui stesso pone a significazione di qualcosa di insignificante. Solo creando la propria presupposizione simbolica nel lavoro salariato, che oggi si appresta a abolire, il capitale diventa legame sociale, ovvero capitalismo, e come tale acquista un senso storico e ontologico. Il lavoro ci appare allora come paradossale effetto retroattivo del suo effetto (il capitale): è creatore di capitale solo in quanto creato dal capitale. Potenza della ragione speculativa! Il capitalismo si comporta così come il Barone di Munchausen, che esce dalla palude in cui è caduto tirandosi fuori per i capelli.
Questa logica di auto-causazione evidentemente non lascia molto spazio a ipotesi di palingenesi proletarie. L’unica via d’uscita da un sistema che ha nella merce-lavoro la propria condizione di possibilità può venire da un lavoro liberato da sé stesso. Se c’è una dimensione delirante nei movimenti marxisti ortodossi è la persuasione che il lavoro produttivo per il capitale in qualche modo, non si capisce come, coincida con il lavoro sub specie aeternitatis, ossia con una famigerata forza-lavoro intesa come potenza autonoma universale produttrice di (altrettanto famigerati) valori d’uso. Marx ci dice che questa forza-lavoro è inalienabile alla condizione umana, e un bel giorno autorizzerà il passaggio al comunismo, dove infine sparirà (bontà sua) in quanto non avrà più motivo di essere.
A mio modesto parere, non si può però asserire che Marx abbia avuto torto nel teorizzare l’universalità del lavoro in quanto metabolismo tra genere umano e natura. Tuttavia, Marx non tenne conto del fatto che, declinato in termini speculativi, il lavoro è una determinazione negativa piuttosto che il protagonista rivoluzionario di una narrazione teleologica che si conclude con il trionfo del comunismo. In quanto dispendio di “cervello, muscoli, nervi, mani ecc.”,[7] il lavoro umano è in ultima analisi irriducibile al calcolo. Lacan lo comprese perfettamente quando, nei seminari XVI e XVII di fine anni ’60, ricondusse il lavoro al sapere dell’inconscio, un sapere che per definizione non si sa, ma si fa. Il capitalismo dunque, nel contabilizzare il lavoro umano, distorce l’oscuro lavorio dell’inconscio, quel savoir-faire, o saperci fare con le cose del mondo, che ancora animava la produzione dell’artigiano. Quel lavoro però rimaneva ai margini dei processi di significazione delle società pre-capitaliste, che si fondavano su altri valori (religione, lignaggio, ecc.). Nel momento in cui il capitalismo mette l’oggetto ‘merce-lavoro’ al centro del mondo, trasformando il nostro mondo in Arbeitsgesellschaft (‘società del lavoro’, secondo la celebre definizione di Hannah Arendt), la relazione sociale si viene a solidificare attorno all’ethos del lavoro quale rappresentazione simbolica di tempo monetizzabile.
4. Il silenzio che parla, e la causa che non c’è
È questa specifica “astrazione reale”[8] del lavoro che ritroviamo nel primo articolo della nostra costituzione. Detto succintamente: per affermarsi come legame sociale il capitalismo costringe il lavoro umano a assumere il ruolo di quantificazione monetaria parcellizzata in unità temporali. È su questo postulato, oggi in via d’estinzione, che si affermano tutte le società capitaliste, come del resto quelle del socialismo reale. La specifica alienazione dei moderni è scandita dal dogma del tempo di lavoro, senza il quale homo economicus si svuota di senso, perde la bussola ontologica, non sa più che fare di sé stesso. Come i sei personaggi pirandelliani, senza quel dispositivo significante che è il tempo del lavoro quantificato l’uomo moderno si riduce a personaggio in cerca d’autore – un autore che appunto gli possa dare non solo un po’ di denaro, ma soprattutto una parte da recitare. Covid-19 è dunque un trauma che agisce per sottrazione: ci priva (almeno momentaneamente) della nostra essenza, che nella modernità si risolve nella produzione di quell’entità enigmatica e speculativa che chiamiamo plusvalore. Ma il punto su cui insistere non è tanto l’alienazione in sé, che in quanto tale è la condizione formale della nostra esistenza in quanto rappresa nel linguaggio; ma il fatto che questo specifico trauma, che il virus ha reso esplicito, era da tempo venuto a disturbare la nostra presunzione di eternità, l’arrogante convinzione che il capitalismo avesse inaugurato la fine della storia. In questo senso, Covid-19 è una metonimia del capitale, oggi sempre più vicino alla propria ingestibile essenza, che mette a dura prova ogni tentativo di ricondurlo dentro i principi di razionalità della politica economica. Su questa doppiezza videro bene Deleuze e Guattari quando affermarono che “tutto è razionale nel capitalismo, tranne che il capitale”.[9]
La crisi del capitalismo contemporaneo globalizzato è pur sempre una crisi di produzione di plusvalore dovuta, come anticipato, alla dilagante automazione dei processi di produzione. È la crisi di un meccanismo cieco e impersonale che mette il lavoro al lavoro al fine di quantificarlo e strappargli un sovrappiù di produttività che, a sua volta, viene elevato a sacro Graal dell’intero sistema riproduttivo. Ma per estrarre plusvalore, il capitale deve prima significare il lavoro, ovvero sedurlo (e, infine, abbandonarlo) per conferirgli un carattere sociale, una specifica identità simbolica. Il plusvalore è dunque il risultato di un processo di significazione che ha come protagonisti il denaro-capitale e il lavoro. Marx, com’è noto, ci dice che il lavoratore corrisponde al capitale un pluslavoro, ovvero un tempo di lavoro aggiuntivo non coperto dal salario, che dunque gli viene subdolamente espropriato per formare plusvalore e realizzarsi in profitto. Tuttavia, come gli imputa, tra gli altri, Jean Baudrillard,[10] Marx finisce per giocare la sua partita sul terreno del capitale. Questo perché accetta, a sua insaputa, il presupposto fondamentale del capitalismo, che mira a fare del lavoro qualcosa di economicamente produttivo e socialmente riproduttivo. Plusvalore significa infatti per Marx capacità di produrre qualcosa in più rispetto a quanto si viene pagati. Il punto di partenza della sua critica è dunque sostanzialmente identico al postulato capitalista: la produttività di valore da parte del lavoro. Se così non fosse – se cioè non avesse ontologizzato il lavoro produttivo come forza universalmente positiva – Marx avrebbe forse intuito che il plusvalore è, in realtà, il segno della mancanza di valore, dell’impossibilità di produrre valore.
È attorno a questo segno meno spacciato per segno più dall’ingegnosa messinscena capitalista che gira vorticosamente tutto il sistema produttivo di profitto. Non è forse vero che nel capitalismo il profitto viene per definizione percepito come mancante? Più ci si arricchisce, più si percepisce il valore che non si ha e che si potrebbe avere. Il segreto riproduttivo del capitalismo sta proprio nel non averne mai abbastanza. E questo per un motivo molto semplice, benché comprensibilmente denegato da tutti: il plusvalore è un significante negativo, per definizione svalorizzato, ovvero è misura di assenza di valore piuttosto che di una quantità monetizzabile di forza-lavoro strappata al lavoratore. Proprio perché vortica attorno a un oggetto di cui gode in quanto mancante, il capitale ha la struttura della pulsione freudiana.[11] Allo stesso modo in cui è compulsivo il vizio del fumo (il fumatore gode sempre della sigaretta che verrà, non di quella che sta fumando), o il vizio del gioco (il giocatore, come nell’omonimo romanzo di Dostoevskij, gode sempre ‘in perdita’), il capitale si auto-valorizza relazionandosi al plusvalore come sostanza negativa, nel senso preciso di un fantomatico oggetto che incarna il proprio non-esserci. E la crisi sistemica che da qualche decennio stiamo attraversando smaschera il ruolo assolutamente centrale di questa mancanza nel processo di auto-valorizzazione del valore. Si può dire, infatti, che il capitale, sempre più sprovvisto del sostengo socio-simbolico dell’astrazione-lavoro, arrivi ormai a coincidere con sé stesso, ovvero con la propria esplosiva contraddizione interna – come appunto evidenziato dalla deriva finanziaria e dal suo ruolo sempre più centrale, benché assurdo, nella riproduzione delle nostre società.
Da questo punto di vista non è affatto errato affermare che, attraverso il suo agghiacciante silenzio, Covid-19 ci dice la verità sul lavoro e insieme sul valore da esso prodotto: sottraendoceli in modo così brusco, il virus porta alla luce la loro reale inconsistenza, e dunque l’astuto espediente speculativo su cui continua ostinatamente a sostenersi il nostro mondo reale. Il punto però non è denunciare il gioco di prestigio del capitalismo. Piuttosto, è urgentissimo prendere coscienza del fatto che questo specifico artificio ha ormai perso la sua efficacia storica, la sua carica ontologica. La crisi terminale del capitalismo, accelerata dal virus, ci rende sempre più nudi e indifesi di fronte al nulla attorno a cui si è da secoli auto-organizzato il nostro modello di vita quale specifica forma di immunizzazione sociale. Questo nulla non dev’essere ignorato o ricusato, ma assunto a causa mancante della nostra esistenza al fine di immaginare e iniziare a progettare intorno a essa un nuovo legame sociale.
NOTE
[1] “Draghi: we face a war against coronavirus and must mobilise accordingly”, Financial Times, 25 marzo 2020.
[2] Walter Benjamin, Gesammelte Schriften, I, 3, 1942, p. 1232.
[3] Cfr. K. Marx, Lineamenti frondamentali della critica dell’economia politica, vol. 1, Firenze, La Nuova Italia, 1968, p. 33.
[4] K. Marx, Capitale vol. 1, Roma, Editori Riuniti, 1980, p. 185.
[5] Qui vengono alla mente altre immagini di cinema, dal Lulù Massa di Elio Petri (La classe operaia va in paradiso, 1971) al forse meno nobile ma ugualmente efficace episodio della ‘timbratura del cartellino’ nel primo Fantozzi (1975) – entrambe citazioni dell’incipit chapliniano.
[6] Si veda il paragrafo 342 nell’ultima parte dei Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel.
[7] K. Marx, op. cit., p. 76.
[8] A. Sohn-Rethel, Lavoro intellettuale e lavoro manuale. Per la teoria della sintesi sociale, Milano, Feltrinelli, 1977.
[9] G. Deleuze, in Macchine desideranti. Capitalismo e schizofrenia, Verona, Ombre Corte, p.62.
[10] Di Baudrillard si veda soprattutto Le miroir de la production, Paris, Casterman, 1973.
[11] Si veda Al di là del principio del piacere, saggio di Freud del 1920.
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