L’8 settembre sulla prima pagina del “Corriere della sera”

di Dino Messina

C’è un prima e un dopo l’8 settembre 1943, una data che continua a condizionare la nostra memoria collettiva. A leggere le due prime pagine dedicate all’armistizio con gli angloamericani dal “Corriere della sera” del 9 settembre, una per l’edizione del mattino e una per quella del pomeriggio, vengono in mente le immagini del “tutti a casa”, del disfacimento del nostro esercito lasciato senza una direzione, della fuga del re. E affiora anche il dilemma se in quei giorni si consumò la “morte della patria” o si seminarono con gli embrioni di Resistenza i semi della rinascita.

Gli articoli preparati a Milano in via Solferino, nella redazione romana, o datati Berna, Berlino, Sciangai (scritto così) hanno la potenza di evocarci una storia avvenuta prima e dopo ma nello stesso tempo ci riconducono alla realtà e alle sensazioni di quel giorno. Come venne accolto il breve messaggio radiofonico letto dal generale Pietro Badoglio, alle 19,42 nella sede dell’Eiar? “Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al gen. Eisenhower […]. La richiesta è stata accettata…”. La conclusione, con l’accenno alla possibilità di reagire “ad eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza”, faceva intuire un futuro prossimo non facile.

Il primo commento, probabilmente scritto da Ettore Janni (il direttore succeduto ad Aldo Borelli che sedette alla scrivania di Luigi Albertini per poco più di un mese, dal 1° agosto all’11 settembre) era intitolato “Risalire”. “L’Italia risalirà, ha in sé la sua rinascenza” era la chiusa, ma tutto il testo era intriso di pessimismo oltre che di parole di omaggio per le numerose vittime della guerra. Caduti di una guerra persa. Peggio, condotta “senza il popolo”, a differenza del primo conflitto mondiale che era stato combattuto “con il popolo”. Nell’edizione del pomeriggio, un editoriale intitolato “Coscienza” sottolineava come “cosa terribile” la “resa al nemico”, la condizione di “vinti” e richiamava le responsabilità di una nazione che aveva mandato a combattere i suoi soldati con i vecchi fucili “91”.

Nell’edizione del mattino due cronache da Milano e da Roma sondavano l’umore della popolazione, che aveva formato capannelli dopo l’annuncio radiofonico di Badoglio, aveva sperato nella pace, ma con reazioni molto più composte rispetto alle esultanze del 25 luglio. “Folle commosse, non liete” era la sintesi del cronista milanese.

Interessante che accanto alle notizie sull’Armistizio, si continuarono a pubblicare quelle dell’ultimo giorno di conflitto con gli angloamericani: la notte tra il 7 e l’8 Santa Marinella aveva subito un pesante bombardamento aereo ad opera della britannica Royal Air Force, mentre i soldati italiani arretravano assieme ai tedeschi sul fronte calabrese.

Le poche notizie extra-belliche erano dedicate agli “illeciti arricchimenti” e ai problemi dell’annona, tessere alimentari e borsa nera.

Ciò che il “Corriere” di Ettore Janni non aveva raccontato, perché non ancora conosciuto, era il modo incerto e disordinato in cui si era giunti all’armistizio, al quale era seguita l’ingloriosa fuga del re con la sua famiglia, di Badoglio e di Vittorio Ambrosio, capo di Stato maggiore dell’esercito.

Protagonista e firmatario per parte italiana dell’armistizio era stato il generale Giuseppe Castellano, mandato il 12 agosto in treno a Lisbona per un primo abboccamento con gli Alleati. I leader angloamericani avevano dettato dal Quebec dov’erano riuniti i dodici punti di un armistizio breve cui sarebbe seguito il testo ben più pesante del cosiddetto “armistizio lungo”. Castellano, a nome di Badoglio, pretendeva di sapere il punto e il giorno dello sbarco Alleato (quello di Salerno, denominato operazione Avalanche) quindici giorni prima, mentre gli angloamericani avrebbero avvisato poche ore prima. All’insaputa di Castellano a Lisbona era stato mandato in aereo anche un altro generale, Giacomo Zanussi, cui venne consegnato il testo dell’oneroso armistizio lungo, che parlava chiaramente di “resa incondizionata”. Un pasticcio.

Castellano firmò il 3 settembre in un uliveto a Cassibile, nei pressi di Siracusa. Era in abito borghese, mentre gli ufficiali Alleati vestivano le divise militati color cachi. Gli angloamericani avevano ipotizzato un aviosbarco sulla capitale che doveva essere appoggiato dalle nutrite divisioni italiane. Il vicecomandante della 82° divisione Maxwell Taylor arrivato a Roma la notte tra il 7 e l’8 si trovò davanti a un muro di gomma. Gli italiani, a cominciare da Badoglio, si dicevano impreparati. Non se ne fece nulla.

Dwight Eisenhower aveva stabilito che l’annuncio venisse dato l’8 settembre, mentre quel pomeriggio in una drammatica riunione al Quirinale il generale Giacomo Carboni suggerì a Vittorio Emanuele III un rinvio. Notizia che suscitò l’ira e le minacce del comandante supremo americano. Il re capì che non c’era via d’uscita e mandò Badoglio nella sede dell’Eiar. Poco dopo si ritrovarono tutti, re, capo del governo, capo di Stato maggiore, al ministero della Guerra di via XX settembre, dove trascorsero una notte agitata prima della fuga ingloriosa verso Pescara.

(lanostrastoria.corriere.it)

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