Il futuro è possibile

di Raniero La Valle

sueños...del futuro

La domanda che abbiamo messo in esergo a questa assemblea quando l’abbiamo convocata alcune settimane fa, se cioè “solo un banchiere ci può salvare”, ha avuto già una prima risposta: no, un banchiere non ci può salvare e di fatto non ci ha salvato. Nella tradizione ebraico-cristiana il salvatore è uno che salva una volta per tutte, non può essere uno che salva finché c’è, e dopo arriva il diluvio e cresce lo spread, non può essere uno che per continuare a salvarci deve continuare ad avere il potere, non può essere un commissario mandato dall’alto dei cieli europei con l’incarico di salvarci togliendoci indipendenza e libertà, nel coro osannante di giornali che non danno notizie ma oracoli. Fuori di metafora, non ci possono essere poteri che ci salvano una volta per tutte, e quando si stanano i grandi poteri perché governino direttamente la società, se ne possono lucrare vantaggi a breve termine, ma ci sono pericoli a lungo termine.                                                                                                             Di Giuseppe Dossetti, di cui oggi, 15 dicembre, ricorre il sedicesimo anniversario della morte, tutti ricordano la lettera che scrisse al sindaco di Bologna nel 1994 quando rientrò nella città politica per difendere la Costituzione, ma nessuno ricorda un’altra lettera che scrisse nel 1996 quando – caduto Berlusconi e dopo la parentesi del governo Dini – con l’incarico a Maccanico e dietro il paravento di un governo tecnico, si stava per consegnare il Paese al dominio diretto di grandi poteri non tutti noti.                                                                                                                   In una lettera all’assemblea dei Comitati Dossetti il 6 febbraio 1996, dopo aver parlato delle “tre maschere tragiche” che stavano gestendo la crisi, Dossetti scriveva: «Non so se le dichiarazioni del capo dello Stato nel dare l’incarico a Maccanico e quel che Maccanico stesso potrà fare per chiarire i punti lasciati in sospeso e per rendere l’atmosfera meno torbida, sospetta, evasiva, potranno raggiungere, sia pure tardivamente, un qualche risultato. Certo Maccanico è un uomo molto sperimentato, un vero esperto distillatore di “semplici”. Ma ho l’impressione che, abbia o no successo, non sarà facile congedarlo, assiso com’è sui poteri reali e non sui poteri, oggi attenuati e quasi nominalistici, del Parlamento e dello stesso Capo dello Stato». Di fatto poi Maccanico non riuscì a formare il governo e Scalfaro indisse le elezioni, che vennero vinte da Prodi. La morale di questa storia è che, una volta instaurata una società democratica, quale è la nostra, solo il popolo può salvare il popolo, non ci sono surrogati, e il popolo può salvarsi solo attraverso i suoi partiti, le sue organizzazioni, i suoi movimenti e le sue rappresentanze.

Ma se così stanno le cose, perché abbiamo messo questa domanda a tema della nostra Assemblea? Si tratta solo di una domanda retorica? Questa domanda in realtà è una citazione di Heidegger che, a metà del Novecento, con molta preveggenza dava voce allo sgomento che nasceva dinnanzi alla travolgente avanzata planetaria della tecnica moderna, non più controllabile dall’uomo (una tecnica che come ora sappiamo non è solo la tecnica degli strumenti che usiamo ma è anche la tecnocrazia che domina la politica di cui ha parlato Ferrajoli). Heidegger affermò, in un’intervista allo Spiegel che in tale situazione “solo un Dio, ormai” ci poteva “aiutare a trovare una via di scampo” sicché non ci sarebbe rimasto altro da fare che prepararsi “per l’apparizione del Dio oppure per l’assenza, il distanziarsi di Dio nel tramonto”, e quindi per “tramontare al cospetto del Dio assente”: che non era una bella prospettiva. In tempi di secolarizzazione era un’affermazione estrema, che dava il senso della gravità della crisi. In Italia questa suggestione, in forma di domanda, fu ripresa da un altro grande intellettuale che aveva anche lui una vivissima coscienza della crisi, Claudio Napoleoni; questo intellettuale era anche un economista, e insieme era un filosofo dell’economia, che però pensava in modo molto concreto; egli aveva esplorato e messo a frutto il pensiero marxista, ne aveva rivelato le potenzialità e ne aveva individuato l’errore teorico in termini di economia politica; e alla fine era arrivato alla conclusione che la crisi non era solo una crisi del modello economico, ma una crisi dell’intero assetto a cui era arrivato lo sviluppo storico e, contro Franco Rodano, aveva sostenuto che non c’era un’uscita per via meramente politica dalla crisi; ci voleva invece una conversione più profonda, ci voleva una nuova fondazione dell’economia e della politica, ci voleva una nuova comprensione antropologica. Così com’era stato concepito dall’Occidente infatti l’uomo, sia nella sua condizione di potenza riconosciutagli dall’illuminismo, sia nella sua condizione di debolezza e decadenza imputatagli dalla dottrina allora vigente del peccato originale, non era in grado di prendere in mano la storia, di costruire la pace, di risolvere la crisi.

A Napoleoni non era giunta l’eco della nuova antropologia del Concilio Vaticano II, che del resto era rimasta nascosta nella pratica della Chiesa postconciliare, secondo la quale non c’era stata alcuna rottura tra Dio e l’uomo a causa del peccato, non c’era stata alcuna sottrazione agli esseri umani delle loro capacità primordiali e anzi Dio stesso “aveva messo l’uomo in mano al suo consiglio” sicché, come diceva la Costituzione Gaudium et Spes, sarebbero bastati uomini più saggi per far fronte a una situazione in cui “è in pericolo, di fatto, il futuro del mondo” (G. et S., n. 17, n. 15). Stando invece alla vecchia antropologia, Napoleoni, alla fine della sua vita, si chiedeva se non avesse ragione Heidegger quando diceva che solo un Dio ci può salvare: e tuttavia, contro l’idea di un tramonto, esprimeva con radicalità l’esigenza di “guardare in modo diverso il rapporto tra l’uomo e il mondo”, come dice in esergo il nostro sito di Economia Democratica (www.economiademocratica.it). Tutto ciò si ricollega al compito di questa Assemblea e dell’Associazione che da essa prende inizio. Analoga infatti è la percezione della crisi, e analoga è la coscienza che da essa non si esce con qualche aggiustamento di politica economica che resti però all’interno dell’ideologia del capitalismo vincente e all’interno degli stessi parametri che sono oggi in uso; forte è la percezione che ci voglia invece una straordinaria forza di cambiamento e uno straordinario investimento di pensiero e di azione politica; forte è però anche la persuasione che con le forze di cui l’uomo è dotato, ossia tutte le donne e gli uomini insieme, possiamo farcela a trovare una strada e a uscire dalla crisi; e l’idea è anche che, al contrario di quello che pensava Heidegger, secondo il quale non c’erano rimasti che “il pensiero e la poesia”, si possono mettere in campo altre risorse spirituali, economiche e politiche perché anche all’epoca tecnica possa corrispondere un sistema che chiamiamo democrazia.

Ma come mai, se la crisi era percepibile e pienamente in atto già negli ultimi anni del Novecento, ed era stata denunziata da economisti e politici, solo adesso si è presa coscienza della sua portata catastrofica, e solo ora viene proposta un’iniziativa specifica che se ne vuole far carico, e che chiamiamo Economia Democratica? È accaduto qualcosa che ha fatto scattare l’intuizione da cui nasce questa iniziativa. Ci siamo accorti che quello che era accaduto non era stato solo l’alzarsi del livello di una politica di destra che del resto in Italia c’era sempre stata, anche nel periodo della più avanzata Democrazia Cristiana. C’era stato invece, insieme al crescere della destra attraverso Berlusconi, un cambio di paradigma, lo slittamento verso un altro statuto dell’attività economica, grazie al quale lo scettro del sovrano anche formalmente passava dalla politica all’economia, e l’economia si affrancava da ogni vincolo esterno, si faceva autonoma da ogni condizionamento di valori e soprattutto da ogni obbligazione verso i valori sociali e perciò verso la vita stessa delle persone. Era accaduto che il denaro fosse diventato il metro del potere e la leva del comando; anche plasticamente ciò è diventato evidente quando si è visto che in una notte si potevano vincere o perdere le elezioni grazie alla promessa dell’abolizione dell’ICI. Non a caso l’idea di Economia Democratica è nata all’interno di un processo di difesa della Costituzione in cui erano impegnati da anni i Comitati Dossetti come l’Associazione per la democrazia costituzionale e altri comitati e gruppi schierati nel territorio a difesa della Costituzione repubblicana. A un certo punto ci siamo accorti che la Costituzione non si poteva più difendere semplicemente cercando di contrastare riforme inconsulte, ma occorreva intercettare quella riforma silenziosa ma distruttiva che stava sostituendo alla Costituzione formalmente vigente un’altra Costituzione detta materiale che, senza cambiare le parole, cambiava però le realtà che nella Costituzione erano significate da quelle parole. In altri termini, il lavoro gettato nel mercato non era più il lavoro di cui parla l’art. 1 della Costituzione, e l’economia ricattata dalle banche e dalla speculazione finanziaria non era più l’economia di cui si parla nel Titolo Terzo della prima parte della Costituzione. L’economia di cui parlava e parla la Costituzione è un’economia con cui il potere politico non ha paura di confrontarsi per imporre le sue finalità, le sue esigenze e le sue leggi. Non c’è nella Costituzione alcun articolo 7 che sancisca la separazione e l’indipendenza dell’economia dallo Stato. Al contrario c’è l’idea che l’economia non possa essere aliena rispetto alla vita del popolo, che debba essere ordinata e coordinata a fini sociali, che non possa svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. Qual era però il limite di questa collocazione dell’economia nel quadro della Costituzione? Il limite era che questo dover essere dell’economia era dato dall’esterno, era dato come una consegna del potere politico, era addossato all’economia come un costo che essa dovesse sopportare, non era un ordine di finalità e di valori sociali ed etici che scaturisse dall’interno stesso della dimensione economica, dal modo in cui l’economia stessa era concepita. Nel famoso scontro tra Dossetti e Carnelutti al convegno dei giuristi cattolici del 1951, la cosa era chiarissima: Dossetti avanzava le esigenze dell’etica pubblica che, sulla scorta di una citazione del giureconsulto romano Cocceio Nerva, giungevano fino ad attribuire allo Stato il compito non solo di assicurare il diritto, ma di difendere il suo effetto, cioè la felicitas, la felicità degli uomini che compongono lo Stato: ius tueri, felicitatem defendere. Carnelutti sosteneva invece la tesi di un’economia che dovesse rispondere solo alle sue proprie leggi senza intromissioni dello Stato. Come ha spiegato il prof. Schiattarella, questa era l’idea dell’economia che era egemone nella scienza economica; una scienza economica che assumendo come “unità d’analisi” l’individuo e il suo utile senza alcun riferimento a valori morali, nel passaggio poi dal singolo alla collettività concepiva gli “stati del mondo” e le scelte pubbliche come aliene da ogni riferimento ai valori già esclusi in partenza al livello del singolo essere umano. Perciò se dei valori dovevano essere addossati all’economia, dovevano essere imposti dall’esterno ed esserle addebitati come costi. In parole povere l’economia non avrebbe il compito di permettere almeno la nuda vita di tutti, tanto meno di assicurare un reddito minimo garantito come vorrebbe Ferrajoli, o di garantire il diritto allo studio, perché questi sarebbero dei costi non funzionali ai suoi fini. Era cioè vigente, ed è vigente, quell’idea di economia che la stessa scienza politica ha considerato ovvia; se ne può trovare la conferma nella definizione del criterio dell’economico che Carl Schmitt fornisce come scontata, nel momento in cui definisce quello che secondo lui è il criterio del politico: come sul piano morale, dice il giurista tedesco, la distinzione di fondo è tra buono e cattivo, e sul piano estetico la distinzione è tra bello e brutto, così sul piano economico la distinzione è tra utile e dannoso oppure redditizio e non redditizio; allo stesso modo la distinzione fondamentale nel politico sarebbe tra amico e nemico . Tutti sanno quali conseguenze devastanti abbia portato l’assumere come criterio del politico la contrapposizione tra amici e nemici; ma non meno devastante è isolare l’economico nell’unica griglia della distinzione tra utile e non utile, redditizio e non redditizio. La speculazione finanziaria che manda al macero popoli interi sarà anche moralmente cattiva, ma è perfettamente giustificata rispetto al fine unico dell’economia, il profitto, questo idolo dell’utilitarismo che diventa il dio che ci perde. Come diceva l’austriaco von Hayek, in un libretto pubblicato in Italia nei primi anni della Repubblica dall’Associazione Bancaria Italiana: “La piena occupazione, ma a che prezzo?” Come a dire che il diritto al lavoro sarà pure una bella cosa, ma molto più redditizio è un sistema dotato di un esercito di disoccupati come precari o come esuberi. Questa costellazione concettuale c’era già nei primi decenni della Repubblica; ma il potere politico, i partiti di massa, i sindacati erano abbastanza forti da poter imporre dall’esterno all’economia degli oneri sociali, come vuole la Costituzione. Quello che oggi è avvenuto è che questo potere si è quasi completamente perduto; la politica si è degradata ed è sbeffeggiata su tutte le piazze, i partiti non ci sono più, e quelli che ci sono vengono ogni giorno oltraggiati e invitati a disciogliersi nella società liquida monitorata dai sondaggi d’opinione, i sindacati sono divisi e i più coraggiosi vengono considerati come i giapponesi che continuano a combattere a guerra ormai finita. Sicché a questo punto restano due strade. Una è quella di una potente ripresa della politica, che non è possibile se essa stessa non passa attraverso una rigenerazione, non solo morale però, ma anche dottrinale, ideologica e strategica. L’altra strada è di più lunga durata ma congrua a preconizzare un futuro possibile e ad avvicinare tempi nuovi. È la strada di una robusta rifondazione antropologica che renda possibile cambiare criteri e paradigmi di un’economia e di una politica che sono il punto di caduta di una lunga storia e di una cattiva antropologia. Dovrebbe essere possibile una politica il cui criterio sia la pace e non il nemico, dove la pace però nasca dal cuore della politica, com’è concepita dalla Costituzione, e non dal campo di battaglia in cui siano stati sconfitti i nemici della pace; e dovrebbe essere possibile un’economia il cui criterio, per la sua stessa logica interna e non unicamente per la forza di una pressione esterna, sia di sostenere non solo la nuda vita, ma la “buona vita”, come la chiamava Aristotile, e la cui dimensione morale fin dall’origine sia di assicurare agli esseri umani il diritto di cercare la felicità; è questo un diritto sancito agli albori del nostro tempo, nella dichiarazione di indipendenza americana ed entrato nel costituzionalismo moderno: non il diritto alla felicità, perché la felicità né l’economia né la legge la possono dare, ma il diritto alla ricerca della felicità, senza scontrarsi con ostacoli che sul piano economico e sociale di fatto la impediscono; e quel “di fatto”, che vuol dire non nei criteri astratti ma nella concretezza della vita, ce lo fece mettere nell’art.3 della nostra Costituzione una donna, Teresa Mattei, che veniva dalla Resistenza e sapeva il carico di bisogni e di speranze che tutti, e soprattutto i poveri, in quel tempo affidavano alla Repubblica, alla Costituzione, alla democrazia e alla politica.

Credo che la nostra Associazione debba intraprendere ambedue le strade. Molte proposte culturali e politiche, di principio e pratiche sono state fatte su cui lavorare. Si tratta di rivendicare la politica come funzione del bene comune, come scienza dell’esserci degli uomini insieme; affermare il diritto come difesa del debole; riconoscere il costituzionalismo non come una sorta di nuovo giusnaturalismo, ma come l’accumulo dei diritti e delle garanzie via via conquistati nella storia; si tratta di fare dell’economia non un dato di natura, una trascendenza, un destino, e nemmeno il mitico prodotto sensato di una somma di egoismi individuali insensati, ma un processo di creazione e di impiego delle risorse perché agli uomini e alle donne sia data una buona vita, possano godere di libertà e di eguaglianza, possano perseguire il pieno sviluppo della loro personalità umana e possano partecipare all’organizzazione della comunità politica, dentro e fuori i confini del Paese, in quella dimensione di universalizzazione dei diritti di cui ha parlato Ferrajoli. Ed è qui, nel passaggio all’universalità dell’unica cittadinanza umana, che potrà veramente avvenire la “contaminazione”, cioè l’incontro e la comunicazione non solo di politica ed economia, di economia e diritto, ma anche delle culture e delle fedi. È chiaro infatti che alla prova dell’universalità e del riconoscimento di un’unica comunità mondiale, contro l’imbarbarirsi della globalizzazione, sono attesi non solo politica e diritto, ma anche le grande religioni dell’umanità. La Chiesa cattolica ha già fatto lo sforzo al Concilio di definirsi non più come un orto chiuso fuori del quale non ci fosse verità e salvezza, ma come segno e strumento dell’unità di tutto il genere umano, e davvero dovrà mettersi su questa strada; ma allo stesso traguardo di universalità è atteso ed è proteso l’Islam, contro le tentazioni e le diffamazioni che vorrebbero ridurlo a ideologia violenta e settaria; e quanto all’ebraismo è chiaro che c’è una questione aperta e drammatica tra la sua esistenza politica, schmittianamente legata al nemico, e la sua profezia teandrica. Infine, un’ultima considerazione. Le analisi economiche che abbiamo fatto e che cercheremo di sviluppare e tradurre anche in progetti e proposte, ci accomunano a ciò che già stanno facendo molti altri economisti democratici, “Sbilanciamoci”, e quanti in politica si oppongono oggi alle politiche economiche del governo. Da questo punto di vista non c’è dunque una differenza che ci caratterizzi. Però noi ci mettiamo su un fronte di lotta specifico, facciamo ricorso privilegiato a uno strumento che per la storia da cui viene e per il posto che ha nella storia di oggi, non è meno potente dello strumento economico, nel momento in cui questo avanza una pretesa sovrana. Questo strumento è il diritto, è la Costituzione, è il costituzionalismo. Non ci sono altri antagonisti altrettanto forti alla speculazione finanziaria, all’utilitarismo incondizionato se non il diritto. Il diritto moderno è la conquista più alta cui è pervenuta la storia, è la grande risorsa che il Novecento ha messo in campo per rispondere al nazismo, alla guerra, alla Shoà, agli eccidi di massa, e infine alla bomba atomica; così il diritto è oggi l’unico antidoto alla globalizzazione selvaggia. Non fosse che per questo, varrebbe la pena che questo “fiore” che è Economia Democratica, come l’ha chiamato Lidia Campagnano, possa essere seminato e fiorire.

(Relazione conclusiva dell’Assemblea di “Economia democratica” tenutasi a Roma il 15 dicembre 2012)

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