Il flusso di coscienza nell’età di Montaigne

ghost of montaignedi Giuseppe Galasso

Non è proprio una biografia quella di Sarah Bakewell, Montaigne. L’arte di vivere (Campo dei Fiori, pp. 442, € 19). Sono ventidue tentativi di rispondere alla domanda essenziale di Montaigne: come vivere? Ne dovrebbe venir fuori, con la personalità, anche la biografia; e così è. Ma quale Montaigne poi ne emerge?

La Bakewell lo ritiene il primo caso di auscultazione del «flusso di coscienza», ma se ne può dubitare. Il cammino errabondo nel proprio io è antico in Europa. Marco Aurelio e Agostino ne diedero prove eminenti; e così, due secoli prima di Montaigne, il Petrarca, sul tema di un amore esclusivista, in quel diario poetico che è il suo Canzoniere. Quanto alla tecnica di scrittura, l’Ariosto aveva da poco dato nell’Orlando un ricco esempio del saltare dall’uno all’altro dei propri temi, senza curarsi di alcuna logica. Ed erano, tutti, autori noti al Montaigne.

Un’uguale riserva ci pare da farsi per i dubbi e per le sospensioni di giudizio e le incertezze su significati e valori, da lui profusi nei suoi scritti. Se ne può fare un cardine del suo spirito? È un reale pensiero del dubbio o solo una movenza letteraria? O una scelta morale, oltre che retorica, più che un’espressione di effettiva incertezza interiore?

In realtà, cercare in Montaigne una «filosofia» è fuorviante. Molto meglio è ritrovare in lui innanzitutto la letteratura: il che non vuol dire un vuoto di pensiero. Tutt’altro! Certo è che la sua passione letteraria, concretatasi nel bisogno di interrogarsi e rispondersi, lo spinse, poco più che trentenne, a lasciare impegni e cariche pubbliche, a ritirarsi nel privato, a dedicarsi a questo bisogno e a scrivere gli Essais. Si vedrà allora che non è precursore di Cartesio e del suo dubbio metodico. È, piuttosto, l’espressione europea più profonda della crisi dell’Umanesimo come psicologia, mondo morale e intellettuale, equilibrio voluto fra spirito e natura, all’inizio dell’epoca successiva delle guerre di religione, di ferreo razionalismo e flessibile empirismo, di contrasto tra fede e scienza, di individualismo e del contrario.

È per ciò che nelle crisi di idee e di coscienze del passaggio ad altre epoche si ama ancor più Montaigne, che dalla percezione della crisi è penetrato a fondo e viene portato a interrogativi più radicali. A ragione André Gide auspicava che i Saggi fossero liberati da quella «specie di imbottitura» filosofica in cui sono spesso «infagottati» e che «impedisce alle sue frecce di raggiungerci». Ed è così che si spiegano le sue frequenti stranezze o banalità e il suo continuo processo a se stesso.

Si fa presto a dire che egli è stato «il primo» in questo o quello. I suoi sono problemi ricorrenti nella tradizione europea in tutte le svolte storiche in cui le bussole impazziscono e le nuvole offuscano stelle polari (non lo sentiamo noi, oggi, più fraterno che mai?). Ed è così, anche quando nella vita dei singoli o di gruppi ci si trova dinanzi a svolte simili. Perciò Montaigne è attuale sempre, non solo nelle epoche di crisi. Ancora più presto si fa, poi, a dire che egli inaugura lamodernità, la quale, come ogni età, ha molti ingressi e forme. Montaigne, anche in ciò, è molto più all’epilogo di un mondo che all’inizio di un altro.

Il suo ritiro in se stesso in ancor giovane età, il suo interrogarsi, le sue ansie per la salute, il suo esplorare un po’ a casaccio cose e problemi, di ogni tempo e fino all’implausibile, acquistano, così, ancora maggior senso, e gli tolgono l’aura di enigma di cui molti lo avvolgono. A grattare, anzi, il fondo del barile, egli appare più fornito di criteri, per non dire certezze, di quanto tutti ripetono. A partire dal concetto, che a ragione la Bakewell ritiene centrale in lui, della «salute», di cui (diceva Sergio Solmi, ignorato dalla Bakewell come tutti gli italiani, Macchia compreso) quella fisica è solo una «materiale prefigurazione». O dall’impulso che, data la felice natura dei nativi in America, gli fa credere, contro ogni assolutismo, che vi sono al mondo enigmi non svelati. O dalla sicurezza con cui dice che ai suoi tempi si è progredito in molte cose più degli antichi e che il progresso moderno non è quello antico, di un singolo popolo, ma di «tutto il circuito della vita universale».

Insomma: relativismo, scetticismo, processo autoanalitico. Ma Montaigne non è un fuscello che ondeggia o vaga al vento, non è sulla linea della madeleine evocativa di Proust o dell’irrefrenabile monologo interiore di Joyce. Tutto ciò è padroneggiato con la serie dei suoi interrogativi e conseguenti riflessioni. Flusso di coscienza? Sì, ma con una coscienza che vive il flusso, non con una coscienza che è vissuta e si lascia vivere dal flusso.

(www.corriere.it , 23 novembre 2011)

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