Il fantasma del Sant’Uffizio

di Juan G. Bedoya

Grandi pensatori cristiani lavorano in centri universitari laici o pubblicano con case editrici libere dal controllo ecclesiastico. Un esempio è il teologo svizzero Hans Küng, che ha partecipato come perito al Concilio Vaticano II insieme a Joseph Ratzinger, oggi papa Benedetto XVI. Detestato senza tanti complimenti da Roma, che gli ritirò il titolo di “teologo cattolico”, Küng continua ad essere un punto di riferimento mondiale. In questo mese sarà insignito del dottorato honoris causa dall’Università a Distanza (Uned), su proposta della Facoltà di Filosofia.

In Spagna sono già un funzione una decina di centri superiori dove la Teologia e le scienze della religione non sono in odore di ‘ecclesiasticità’. Sono cattedre create senza interferenza religiosa e dirette da professori in ruolo presso le stesse Università. Fra l’altro, si avvalgono di centri di questo tipo le Università Complutense e Carlos III di Madrid, la Pablo de Olavide di Siviglia, la Pompeo Fabra di Barcellona, l’Università di Valencia e la cattedra di Filosofia della Religione e Storia delle Religioni nella stessa Uned.

La perdita del tradizionale monopolio teologico da parte della gerarchia cattolica è stata pacifica. Nessuno discute più la competenza dello Stato nella creazione di facoltà di teologia, e ancor meno l’esistenza di Università cattoliche con ugual fine. Non è stato sempre così. La saggezza popolare, la più colpita dalle feroci guerre di religione che hanno devastato l’Europa per secoli, ha coniato l’espressione “Y se armó la de Dios es Cristo!” (espressione tutta spagnola. Letteralmente: si è armata la questione se Dio è Cristo, ndt) per riferirsi alle conseguenze delle dispute teologiche se Gesù di Nazaret è figlio di Dio e non un semplice messia.

Vecchi ricordi dell’Inquisizione, fra altri. Ora, la Chiesa di Roma ha un nucleo irrinunciabile di dottrina e lo tiene sotto chiave, senza ammettere discussione, ma senza violenza. Al di fuori, tuttavia, fioriscono teologi che scappano dalla caverna, liberi da minacce di tortura e roghi. Sono pochi, però godono di solito del favore del pubblico. È il fascino della dissidenza.

Fra quelli che in Spagna, negli ultimi anni, hanno pagato per aver osato di essere liberi incontriamo José María Díez-Alegría, José María Castillo, Benjamín Forcano, José Antonio Pagola, Juan Masiá y Juan Antonio Estrada, allontanati dall’insegnamento mediante tortuosi processi. L’ultimo caso è quello del teologo francescano José Arregi, obbligato ad abbandonare l’Ordine di Francesco d’Assisi per evitare guai maggiori ai suoi superiori.

“Humiliter se subiecti”. Si è sottomesso umilmente. Questa era la formula di sottomissione dei censurati da Roma. Lo è tuttora. Il Vaticano II ha soppresso nel 1965 il Sant’Uffizio dell’Inquisizione, ma è risorto con forza, ora con il nome di Congregazione per la Dottrina della Fede. C’è anche un detto latino per enunciare la nuova intransigenza: “Roma locuta, causa finita”. Una volta che Roma si è pronunciata, la questione è chiusa. È difficile trovare un’altra istituzione che tratti in modo tanto disdegnoso quanti difendono altri punti di vista nelle sue file.

Il Vaticano II ha proclamato la fine dei metodi del Sant’Uffizio – crudeli, molto spesso criminali, con decine migliaia di persone bruciate vive o assassinate in altro modo – di fronte allo scandalo che tre dei principali papi del secolo passato avrebbero potuto essere presi di mira dall’inquisitore di turno come sospetti di eresia o deviazioni pastorali. Furono Benedetto XV, Giovanni XXIII e Paolo VI. Anche grandi teologi del rinomato Concilio hanno sofferto l’indicibile fra gli artigli del Sant’Uffizio. Decenni più tardi, si è visto con stupore che uno dei migliori periti del Vaticano II, il tedesco Joseph Ratzinger, stava resuscitando alcune delle pratiche inquisitoriali ripudiate nel 1965.

È stato il cardinale austriaco Franz König che ha suonato il campanello d’allarme e ha dato voce alla sua perplessità. Lo fece quando Ratzinger si avventò sul teologo gesuita belga Jacques Dupuis per “deviazioni dottrinali”  contenute nel libro di questi Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso. In una disputa con Ratzinger, fortemente rilanciata dai media cattolici, il grande König accorse in difesa del teologo. “La mia funzione non consiste nel consigliare la congregazione dottrinale, ma non posso rimanere in silenzio perché mi manca il cuore quando vedo fare un danno tanto ovvio al bene comune della Chiesa di Dio. La Congregazione – ha scritto in un allegato intitolato In difesa del p. Dupuis – ha tutto il diritto di salvaguardare la fede – sebbene lo farebbe meglio se la promuovesse. Il presente caso, perciò, è un segno del fatto che si stanno estendendo la sfiducia e il sospetto su un autore che ha le migliori intenzioni e che ha acquisito grandi meriti nel suo servizio alla Chiesa cattolica”.

König, uno dei più grandi illuminati del Vaticano II, aveva i suoi motivi per dirsi scandalizzato. Non si stava solo calpestando la proclamazione conciliare della libertà religiosa e di coscienza, ma l’idea che bisogna proteggere il lavoro dei teologi. König arrivò a ricordare a Ratzinger il discorso di Paolo VI alla Curia romana in pieno Concilio: “Dobbiamo accettare con umiltà la critica, riflettendoci, e con riconoscimento”.

Ratzinger sosteneva allora la stessa cosa. Scrisse nel 1968. “Ancor più sopra del papa si trova la propria coscienza, alla quale bisogna obbedire prima di tutto, se fosse necessario anche contro quello che dice l’autorità ecclesiastica. Quello che manca nella Chiesa non sono gli incensatori dell’ordine stabilito, sono uomini la cui umiltà e obbedienza non siano minori della passione per la verità, e che amino la Chiesa più della comodità della loro carriera”.

Queste parole se l’è portate il vento non appena Ratzinger, nel 1981, è stato incaricato di presiedere la Congregazione dottrinale, convertita a poco a poco in ferrea polizia della fede. Da allora, la Teologia è trattata come la serva del magistero episcopale.

Obbedienza e unità sono le parole che giustificano tutto. E, inoltre, la volontà di Dio. Però i teologi non ci fanno caso. Seguono il Vangelo più che i superiori. Lo sostiene Hans Küng, compagno e amico di Ratzinger quando erano entrambi docenti all’Università tedesca di Tubinga. “Nemmeno Gesù ubbidiva alla cieca. Aveva solo 12 anni quando, al tempio, ha dimostrato di non obbedire ciecamente ai suoi genitori”.

La verità vi farà liberi, proclama Gesù. È in nome di questa libertà che il teologo Küng si è ribellato. “Non potevo seguire altra strada, non solo per la libertà, che mi è stata sempre cara, ma per la verità, che è al di sopra della mia libertà. Se lo avessi fatto, avrei venduto la mia anima per il potere nella Chiesa”.

Per secoli, la Chiesa romana si è opposta alla traduzione dei testi sacri nelle lingue di ogni popolo. Quando Lutero pubblicò la Bibbia in tedesco, il papa si infuriò esigendo che gli portassero a Roma la testa del monaco agustano. Con le idee di Gesù nelle mani del popolo, Roma non poteva giustificare il suo potere temporale, né la sua pompa e le sue vanità, né la brama di dominio o l’emarginazione della donna. Per questo, come sostiene Küng, “sembra che Gesù goda di maggiore stima fuori della Chiesa che all’interno di essa”. Sottolinea: “Non si chiede mai cosa avrebbe fatto o detto Gesù: in questo contesto una siffatta domanda risulta tanto strana che la maggioranza la giudicherebbe quasi assurda”.

L’ha sottolineato bene il teologo José María Díez-Algría, espulso dalla Università Pontificia Gregoriana di Roma e rifugiatosi in una delle baracche del Pozo del Tio Raimundo, insieme al mitico José María Llanos. “Gesù è entrato a Gerusalemme a dorso di un asino. I papi viaggiano coronati dalla tiara pontificia”.

Non c’è stato un solo aspetto della vita nel quale la Chiesa non si sia creduta in diritto di dire la sua e imporla. Monarchi autocratici, i papi hanno messo in pratica per secoli la dottrina di Gregorio VII nel Dictatus Papae, del 1075: solo il romano pontefice può usare insegne imperiali, “unicamente del papa baciano i piedi tutti i prìncipi”, solo a lui compete deporre imperatori, le sentenze non devono essere riformate da nessuno mentre egli può riformare quelle di tutti. L’ultimo di questi imperatori (o tale si reputava) fu Pio XII, sovrano fra il 1939 e il 1958. Ossessionato dal protocollo tradizionale, i funzionari dovevano inginocchiarsi quando il papa cominciava a parlare, dirigersi verso di lui inchinati ed uscire dalla stanza camminando all’indietro.

Questi i ricordi del brasiliano Leonardo Boff, obbligato ad abbandonare l’ordine francescano: “La mia ventennale esperienza del potere dottrinale è questa: è crudele e spietato. Non dimentica niente, non perdona niente, esige tutto. E per raggiungere il suo fine, si prende il tempo necessario e sceglie i mezzi opportuni”.

Boff non dimenticherà mai che hanno provato a bruciare i suoi libri. Dopo molte dispute, silenzi e umiliazioni giunse il giorno in cui ebbe la “sensazione di trovarsi di fronte ad un muro”. Allora abbandonò anche il sacerdozio. “Ci sono momenti in cui una persona, per essere fedele a se stessa, deve cambiare. Lo stesso Gesù fu assassinato per aver detto che non tutto è lecito in questo mondo. Non tutto è lecito nella Chiesa. Esistono limiti invalicabili: la dignità e la libertà della persona. Ho lasciato il ministero sacerdotale, non la Chiesa. Mi sono allontanato dall’Ordine francescano, non dal sogno di tenerezza e fratellanza di Francesco d’Assisi. La Chiesa gerarchica non possiede il monopolio dei valori evangelici né l’Ordine francescano è l’unico erede del Sole di Assisi”.

L’attuale papa Benedetto XVI è stato professore di Boff a Monaco (Germania) e lo anche aiutato economicamente a pubblicare la tesi dottorale, perché la considerava un grande contributo teologico. “Ratzinger è una persona molto complessa e, a volte, molto negativa per la Chiesa. È un uomo molto influenzato dalla teologia agostiniana, con una visione pessimista dell’essere umano. Non è un uomo che illumina il cammino, ma lo oscura, ostacolandolo. Dubito che creda nell’essere umano e perciò che si fidasse di me. Per questo mi ha condannato”.

“Gestapo ecclesiale”, “garrota”, “cricca indecente”… Sono alcuni degli epiteti che il domenicano francese Yves Congar attribuiva all’inquisizione romana. Allontanato dall’insegnamento, mandato in esilio, umiliato, Congar è arrivato a sentirsi distrutto, sull’orlo del suicidio. «Mi è stato tolto tutto quello in cui credevo e al quale mi ero totalmente dedicato», disse. Resistette e vinse. A compenso degli anni di silenzio cui fu obbligato e in riconoscimento della sua profondità teologica (fu uno dei grandi ispiratori del Vaticano II), Giovanni Paolo II lo fece cardinale nel 1994. È di Congar questa frase: «Si può condannare una soluzione, ma non si può condannare un problema».

Il gesuita Juan Masiá, licenziato dalla cattedra di Bioetica all’Università Pontificia di Comillas, sostiene che la Chiesa cattolica parla di diritti umani all’esterno di essa, ma non li rispetta all’interno. “Rinunciare allo spirito inquisitoriale è una questione pendente. Quando impera un sistema di pensiero – in realtà, di non pensiero – strettamente regolato dai canoni dell’ortodossia, chi volesse avanzare di grado non avrà altra scelta che tacere. La perfetta ortodossia portata all’estremo darebbe preminenza al silenzio e rilevanza alla ripetizione pappagallesca; e darebbe un’approvazione pelo pelo solo a chi le domande proibite le insinua timidamente. Cioè, una sospensione ad ogni dissenso, per fedele, responsabile, intelligente, meditato e ponderato che sia».

(articolo tratto da “Adista Contesti” del 29 gennaio 2011 e pubblicato in lingua spagnola su “El Pais” del 4 gennaio 2011 con il titolo “Investigar o someterse,he ahi el dilema”)

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