Fuoco pallido
di Ennio Ranaboldo
Vladimir Nabokov (1899-1977) è il wordsmith definitivo del Novecento, russo e americano: quasi un cliché ricordare che, nessuno come lui, è stato maestro di stile e di invenzione in prosa e in versi, in due lingue remote come il russo e l’inglese, e anche il frequente traduttore di sé stesso. Nabokov ha eretto a sistema plurilinguistico, nell’intera sua opera, il principio flaubertiano del mot juste. Ma questa sua reputazione da pianta di serra della forma, così come la passione per la precisione tassonomica dell’entomologia, ha forse un po’ offuscato la memoria del suo formidabile genio comico, la maestria nella satira e il sorriso permanente sulle labbra di chi legga, in modo attento e lento, un libro come Fuoco pallido.
«Tutta l’arte è inganno – disse Nabokov in un’intervista –, e così è la natura; tutto è inganno in quel buon imbroglio, dall’insetto che imita una foglia agli inviti seducenti della procreazione». Considerato questo convincimento nabokoviano, che è poi il suo manifesto estetico, è indispensabile mappare brevemente l’«imbroglio» di Fuoco pallido, forse la sua creazione più rutilante e inclassificabile.
Sono quattro le parti del romanzo: la Prefazione di un tale Charles Kinbote, entrato in possesso del manoscritto dell’ultima opera del suo vicino di casa e collega accademico, il poeta John Shade; il poema di Shade Pale Fire, 999 versi in quattro canti; le oltre 200 pagine di commento su Pale Fire dello stesso Kinbote; e infine un indice dettagliatissimo.
Dalla Prefazione apprendiamo che Shade è morto da poco e che Kinbote è fuggito in un luogo remoto con il manoscritto Pale Fire, e si è messo ad annotare il poema. Il commento di Kinbote, che potrebbe anche essere il monarca esiliato di un fantomatico regno chiamato «Zembla», è il delirio di un erudito che ha trascorso i sei mesi precedenti a intrattenere Shade con storie «zembliane», nella speranza che questi le facesse sue in poesia. Ma il poema di Shade è essenzialmente una meditazione autobiografica sul tempo, sul suicidio di una figlia e sulla vita ultraterrena. È anche una sorta di metapoema, in cui Nabokov si cimenta con gli stilemi e i temi di altri celebri verseggiatori – T. S. Eliot, Robert Frost, tra gli altri –, in un gioco di specchi e di ammiccamenti che ha indotto schiere di critici a interrogarsi sulla vera natura dell’opera: quel poema è una beffa sublime o una legittima prova autoriale? I versi che seguono sembrano dare ragione a entrambe le teorie, vanificando in fondo la domanda: Quale istante del lento declino sceglie la resurrezione? […] / Lo spazio è uno sciame dentro gli occhi; e il tempo / un canto nelle orecchie. Sono rinchiuso / in questo alveare. Pure, se in precedenza / in questo alveare. Pure, se in precedenza / questa vita ce la fossimo mai immaginata, / quale folle, impossibile, indescrivibilmente / strano, mirabile nonsense ci sarebbe sembrata! (p. 37).
Il commento di Kinbote si trasforma nella narrazione, sempre più labilmente associata al poema di Shade, della propria biografia. Si mescolano fatti e generi: lotte intestine, una rivoluzione di palazzo, assassini prezzolati, i costumi della fantomatica corte di Zembla. Una fantasmagoria esilarante, che evoca il Bulgakov de Il Maestro e Margherita. Ma, vicende «zembliane» a parte, non mancano in questo libro riflessioni molto serie su religione, destino e provvidenza, e i dialoghi con Shade diventano filosofici: «Come ha detto sant’Agostino: “Si può sapere ciò che Dio non è; ma non si può sapere ciò che Egli è”. Credo di sapere cosa Dio non è: non è disperazione, non è terrore, non è il terriccio dentro una gola rantolante, né il nero ronzio nelle orecchie che va via via affievolendosi fino a un nulla nel nulla. […]. Nel tentativo di trovare il nome giusto per quella Mente Universale, o Causa Prima, o Assoluto, o Natura, io propongo che sia il nome di Dio ad avere la precedenza» (p. 223).
Alla fine, si può concordare con il saggista britannico Martin Amis, il quale sosteneva che, nel corpus immenso e variegatissimo della sua opera, Nabokov, più di ogni altra cosa, ha esercitato l’«instancabile tentativo di rendere piena giustizia all’essenza strana delle cose».
Recensione a Vladimir Nabokov, Fuoco pallido, Adelphi, 2024
(laciviltacattolica.it, 19 dicembre 2024)