Fuoco e ghiaccio

di Ennio Ranaboldo

Questo libro di Robert Frost, splendido poeta, è un classico intramontabile e multiuso, anche ai fini propedeutici di un avvicinamento alla poesia moderna, come pure all’esplorazione – grazie al testo originale a fronte – di un limpido americano lirico-vernacolare.

Frost (1874-1963) è stato il celebrato eroe delle patrie lettere, antologizzato a morte ancora in vita, e invitato a declamare i suoi versi, come una Marilyn Monroe qualsiasi, in occasione dell’insediamento di John Fitzgerald Kennedy. Nei decenni seguenti, la sua rilevanza critica è un po’ sbiadita, sebbene egli rimanga molto popolare ancora oggi.

Le prose poetiche della prima importante raccolta, North of Boston (1914), rimangono tra le prove migliori: malgrado quel microcosmo rurale, in parte autobiografico, sia del tutto estinto da molto tempo, il tono elegiaco, la lingua asciutta e vibrante continuano a incantare: Casa è dove, quando devi andarci, / devono accoglierti. / Io direi invece: / qualcosa che non devi meritarti. E continuano ad attrarre sempre nuovi lettori, come i versi della notissima The Road Not TakenDue strade divergevano in un bosco / e io – io ho preso quella meno battuta, / e questo ha fatto tutta la differenza.

Il commento di Ottavio Fatica coglie nel segno: «Frost, che aveva sviluppato il complesso dell’ulteriorità, e gli sarebbe dispiaciuto se una poesia si fosse fermata da qualche parte, le aveva costruite per trasportare il lettore nello sconfinato. Per farsi il nido nell’illimitato».

Meritano di essere rilette quasi tutte le liriche in forma di dialogo: ballate dal ritmo lento e carico di tensione, che sono l’epos e l’ethos narrativo del poeta, la sua espressione di verità e di bellezza. Frost ci parla con una lingua naturale che decanta le cadenze del parlato in una koinē cristallina; è un raccontare raccolto, che incoraggia il nostro «innidiarci» in quella intimità; ogni lungo componimento è una storia, spesso elementarmente tragica e fondamentalmente senza tempo: Fingono gli amici di seguirci, di seguirti fino alla tomba, / ma non fai in tempo a entrarci che rivolgono / la mente a come fare per tornare / alla vita, ai vivi, a cose che capiscono.

Frost è l’aedo dell’individualismo sub specie americana, scevro di preoccupazioni sociali, un poeta prepolitico più che apolitico. Per quanto sia solo un figlio adottivo della terra, faticando a lungo per tenere in piedi la sua fattoria, egli ci parla, con una vividezza straordinaria, di un paesaggio fisico ed esistenziale a lui intimamente familiare, di una ruralità scandita dai ritmi del lavoro e dalle stagioni. Come ebbe a dire Ezra Pound: «Ne so più della vita in campagna di quanto ne sapessi prima di leggere le sue poesie. Ciò significa che ne so più della “Vita”».

È un universo dove si misura l’alterità tra l’uomo e la creazione, si conosce la crudeltà delle leggi naturali e si sa dove stanno di casa il bene e il male. Un mondo sulla soglia delle grandi trasformazioni del secolo, dello scardinamento del sistema e dei suoi valori; insomma, un attimo prima del precipitare violento della storia. Non c’è, però, nessuna nostalgia arcadica, ma solo la rappresentazione palpitante della «calda vita» (per evocare Saba) o «il sussurro insistente della morte nel cuore della vita» (per citare lo stesso Frost).

L’A. libera il verso come una pepita dalla ganga e, non diversamente da altri verseggiatori minuti e infiniti (si pensi a Emily Dickinson), opera la trasformazione alchemica dell’ordinario nello straordinario. Annotava il poeta: «Come un pezzo di ghiaccio su una stufa rovente la poesia deve cavalcare il proprio scioglimento. La sua qualità più preziosa è aver corso la sua corsa e trasportato con sé il poeta. Il ghiaccio brucia, si scioglie e si cangia in alcunché di ricco e strano».

Questo libro di Robert Frost, splendido poeta, è un classico intramontabile e multiuso, anche ai fini propedeutici di un avvicinamento alla poesia moderna, come pure all’esplorazione – grazie al testo originale a fronte – di un limpido americano lirico-vernacolare.

Frost (1874-1963) è stato il celebrato eroe delle patrie lettere, antologizzato a morte ancora in vita, e invitato a declamare i suoi versi, come una Marilyn Monroe qualsiasi, in occasione dell’insediamento di John Fitzgerald Kennedy. Nei decenni seguenti, la sua rilevanza critica è un po’ sbiadita, sebbene egli rimanga molto popolare ancora oggi.

Le prose poetiche della prima importante raccolta, North of Boston (1914), rimangono tra le prove migliori: malgrado quel microcosmo rurale, in parte autobiografico, sia del tutto estinto da molto tempo, il tono elegiaco, la lingua asciutta e vibrante continuano a incantare: Casa è dove, quando devi andarci, / devono accoglierti. / Io direi invece: / qualcosa che non devi meritarti. E continuano ad attrarre sempre nuovi lettori, come i versi della notissima The Road Not TakenDue strade divergevano in un bosco / e io – io ho preso quella meno battuta, / e questo ha fatto tutta la differenza.

Il commento di Ottavio Fatica coglie nel segno: «Frost, che aveva sviluppato il complesso dell’ulteriorità, e gli sarebbe dispiaciuto se una poesia si fosse fermata da qualche parte, le aveva costruite per trasportare il lettore nello sconfinato. Per farsi il nido nell’illimitato».

Meritano di essere rilette quasi tutte le liriche in forma di dialogo: ballate dal ritmo lento e carico di tensione, che sono l’epos e l’ethos narrativo del poeta, la sua espressione di verità e di bellezza. Frost ci parla con una lingua naturale che decanta le cadenze del parlato in una koinē cristallina; è un raccontare raccolto, che incoraggia il nostro «innidiarci» in quella intimità; ogni lungo componimento è una storia, spesso elementarmente tragica e fondamentalmente senza tempo: Fingono gli amici di seguirci, di seguirti fino alla tomba, / ma non fai in tempo a entrarci che rivolgono / la mente a come fare per tornare / alla vita, ai vivi, a cose che capiscono.

Frost è l’aedo dell’individualismo sub specie americana, scevro di preoccupazioni sociali, un poeta prepolitico più che apolitico. Per quanto sia solo un figlio adottivo della terra, faticando a lungo per tenere in piedi la sua fattoria, egli ci parla, con una vividezza straordinaria, di un paesaggio fisico ed esistenziale a lui intimamente familiare, di una ruralità scandita dai ritmi del lavoro e dalle stagioni. Come ebbe a dire Ezra Pound: «Ne so più della vita in campagna di quanto ne sapessi prima di leggere le sue poesie. Ciò significa che ne so più della “Vita”».

È un universo dove si misura l’alterità tra l’uomo e la creazione, si conosce la crudeltà delle leggi naturali e si sa dove stanno di casa il bene e il male. Un mondo sulla soglia delle grandi trasformazioni del secolo, dello scardinamento del sistema e dei suoi valori; insomma, un attimo prima del precipitare violento della storia. Non c’è, però, nessuna nostalgia arcadica, ma solo la rappresentazione palpitante della «calda vita» (per evocare Saba) o «il sussurro insistente della morte nel cuore della vita» (per citare lo stesso Frost).

L’A. libera il verso come una pepita dalla ganga e, non diversamente da altri verseggiatori minuti e infiniti (si pensi a Emily Dickinson), opera la trasformazione alchemica dell’ordinario nello straordinario. Annotava il poeta: «Come un pezzo di ghiaccio su una stufa rovente la poesia deve cavalcare il proprio scioglimento. La sua qualità più preziosa è aver corso la sua corsa e trasportato con sé il poeta. Il ghiaccio brucia, si scioglie e si cangia in alcunché di ricco e strano».

Questo libro di Robert Frost, splendido poeta, è un classico intramontabile e multiuso, anche ai fini propedeutici di un avvicinamento alla poesia moderna, come pure all’esplorazione – grazie al testo originale a fronte – di un limpido americano lirico-vernacolare.

Frost (1874-1963) è stato il celebrato eroe delle patrie lettere, antologizzato a morte ancora in vita, e invitato a declamare i suoi versi, come una Marilyn Monroe qualsiasi, in occasione dell’insediamento di John Fitzgerald Kennedy. Nei decenni seguenti, la sua rilevanza critica è un po’ sbiadita, sebbene egli rimanga molto popolare ancora oggi.

Le prose poetiche della prima importante raccolta, North of Boston (1914), rimangono tra le prove migliori: malgrado quel microcosmo rurale, in parte autobiografico, sia del tutto estinto da molto tempo, il tono elegiaco, la lingua asciutta e vibrante continuano a incantare: Casa è dove, quando devi andarci, / devono accoglierti. / Io direi invece: / qualcosa che non devi meritarti. E continuano ad attrarre sempre nuovi lettori, come i versi della notissima The Road Not TakenDue strade divergevano in un bosco / e io – io ho preso quella meno battuta, / e questo ha fatto tutta la differenza.

Il commento di Ottavio Fatica coglie nel segno: «Frost, che aveva sviluppato il complesso dell’ulteriorità, e gli sarebbe dispiaciuto se una poesia si fosse fermata da qualche parte, le aveva costruite per trasportare il lettore nello sconfinato. Per farsi il nido nell’illimitato».

Meritano di essere rilette quasi tutte le liriche in forma di dialogo: ballate dal ritmo lento e carico di tensione, che sono l’epos e l’ethos narrativo del poeta, la sua espressione di verità e di bellezza. Frost ci parla con una lingua naturale che decanta le cadenze del parlato in una koinē cristallina; è un raccontare raccolto, che incoraggia il nostro «innidiarci» in quella intimità; ogni lungo componimento è una storia, spesso elementarmente tragica e fondamentalmente senza tempo: Fingono gli amici di seguirci, di seguirti fino alla tomba, / ma non fai in tempo a entrarci che rivolgono / la mente a come fare per tornare / alla vita, ai vivi, a cose che capiscono.

Frost è l’aedo dell’individualismo sub specie americana, scevro di preoccupazioni sociali, un poeta prepolitico più che apolitico. Per quanto sia solo un figlio adottivo della terra, faticando a lungo per tenere in piedi la sua fattoria, egli ci parla, con una vividezza straordinaria, di un paesaggio fisico ed esistenziale a lui intimamente familiare, di una ruralità scandita dai ritmi del lavoro e dalle stagioni. Come ebbe a dire Ezra Pound: «Ne so più della vita in campagna di quanto ne sapessi prima di leggere le sue poesie. Ciò significa che ne so più della “Vita”».

È un universo dove si misura l’alterità tra l’uomo e la creazione, si conosce la crudeltà delle leggi naturali e si sa dove stanno di casa il bene e il male. Un mondo sulla soglia delle grandi trasformazioni del secolo, dello scardinamento del sistema e dei suoi valori; insomma, un attimo prima del precipitare violento della storia. Non c’è, però, nessuna nostalgia arcadica, ma solo la rappresentazione palpitante della «calda vita» (per evocare Saba) o «il sussurro insistente della morte nel cuore della vita» (per citare lo stesso Frost).

L’A. libera il verso come una pepita dalla ganga e, non diversamente da altri verseggiatori minuti e infiniti (si pensi a Emily Dickinson), opera la trasformazione alchemica dell’ordinario nello straordinario. Annotava il poeta: «Come un pezzo di ghiaccio su una stufa rovente la poesia deve cavalcare il proprio scioglimento. La sua qualità più preziosa è aver corso la sua corsa e trasportato con sé il poeta. Il ghiaccio brucia, si scioglie e si cangia in alcunché di ricco e strano».

(recensione a Robert Frost, Fuoco e ghiaccio, tr.it., Adelphi, 2022)

(laciviltacattolica.it , 30 maggio 2024)

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