Franco Fortini, l’eretico che divenne ortodosso
È certo che Fortini non poteva gradire il modo in cui Cesare Garboli lo descrisse in un articolo del 1978: «Se c’è un luogo dove non vorrei entrare neppure per tutto l’oro del mondo, questo è la mente di Franco Fortini». Un incipit degno di memoria, sia umoristico e denigratorio che comprensivo. La mente di Fortini, che subito dopo Garboli si affrettava cortesemente a definire «bellissima», era una mente nella quale si celebrava il sacrificio dell’individuo alla Storia, dell’anima o psiche alla realtà sociale e alla sua dinamica dialettica, secondo marxismo (soprattutto), leninismo (in parte) e cristianesimo (nei termini di un’allusiva teologia morale).
In verità, anche se Garboli avesse voluto entrare nella mente di Fortini, non avrebbe trovato posto. Era una mente affollata di problemi e di spazio libero ce n’era poco. Vi dominavano severe e solenni entità come Epoca, Rivoluzione, Capitalismo, Alienazione, Falsa libertà, Comunismo… Per Garboli la storia e le idee erano fantasmi, reali erano solo gli individui. Per Fortini gli individui erano invece solo incarnazioni di idee e convinzioni politiche, nella grande Storia delle divisioni e delle lotte di classe. Neppure Fortini avrebbe mai voluto entrare nella mente di Garboli: avrebbe sentito di perdere la sua anima di calvinista rivoluzionario che vive nella Speranza di un’utopia futura.
Per Fortini critico e poeta non c’era testo scritto che dicesse la sua verità fuori da un contesto storico, non c’era messaggio interpretabile senza riferimento a una situazione politica. Totalità sociale e mediazione dialettica erano categorie che dominavano il suo pensiero. Fra individuo e individuo, fra un atto e un altro, fra una dimensione e un’altra dell’agire umano, non era possibile, in regime capitalistico, nessuna vera libertà e naturale comunicazione. C’era e doveva essere resa visibile la presenza di presupposti, prospettive e scelte di campo, poiché in una società modellata dalla logica del capitale tutto è mediato da rapporti di proprietà e di potere, da ideologie, ruoli e funzioni stabiliti dalla produzione di merci e dalla riproduzione di una socialità programmata per l’uso degli esseri umani a scopo di profitto e dominio. Senza pensare al conflitto fondamentale tra capitalismo e comunismo, Fortini era dunque incomprensibile. A ritenerlo tale non gli si fa torto, è stato lui a volerlo.
Ripubblicando, a distanza di mezzo secolo, un volume di saggi come Verifica dei poteri (prefazione di Alberto Rollo), Il Saggiatore ci mette di nuovo di fronte ai grovigli intellettuali, morali e politici, alla singolarità e storicità di questo scrittore ideologo. Quando, a metà degli anni Sessanta, il libro uscì in prima edizione, fra riviste come Quaderni rossi di Raniero Panzieri e Quaderni piacentini di Piergiorgio Bellocchio, era in piena attività il laboratorio teorico-politico da cui sarebbe nato il Sessantotto italiano. Erano però anche gli anni di riviste letterarie di sperimentalismo o di neoavanguardia come Il Menabò di Vittorini e Calvino e Il Verri di Luciano Anceschi e del Gruppo 63. Uscivano libri di scrittori come Pasolini e Volponi, Sereni e Giudici, Zanzotto e Amelia Rosselli, nonché di marxisti “creativamente ortodossi” come il materialista Sebastiano Timpanaro e l’operaista Mario Tronti, mentre venivano tradotti Adorno, Benjamin, Barthes e i più giovani Kerouac e Ginsberg, Enzensberger e Foucault. Le nuove avanguardie politiche si mescolavano (in simbiosi o in polemica) con le nuove avanguardie artistico-letterarie. L’aggettivo “rivoluzionario” era tra i più usati: niente che non lo fosse aveva successo, da Herbert Marcuse al Living Theatre, dalla liberazione sessuale all’esperienza psichedelica.
Il Fortini che scriveva i saggi di Verifica dei poteri era perciò circondato da una cultura che gli somigliava e di cui diffidava. A rileggerlo, si vede che per lui ogni questione era sempre più complessa di quello che appariva, che si trattasse di letteratura erotica o industriale, di vecchio antifascismo o di nuovi metodi della critica letteraria. Così si vede Fortini sempre occupato a distinguere, a separare, a obiettare, a cercare sintesi superiori, o formule oppositive, o strategie di più lungo termine.
Stava nascendo e si diffondeva una Nuova Sinistra (Castro, Che Guevara, Fanon, Mao, la guerra antimperialista in Vietnam, gli scioperi operai antisindacali) e un ex socialista eterodosso come Fortini poteva sentirsi confortato. In realtà, se si confronta lo stile di Verifica dei poteri con quello del suo precedente libro di saggi uscito nel 1957, Dieci inverni, si vede che ora il suo stile è in realtà quello di un uomo solo che della solitudine sente tutta la vertigine. Cerca di dialogare con il gruppo neomarxista di Quaderni rossi, tenta di orientare l’eclettismo critico di Quaderni piacentini. Ma al di fuori di queste minoranze alternative sa di non avere un vero pubblico. Alle sue spalle non c’è più un partito come quello socialista degli anni quaranta e cinquanta e lui, da marxista eretico, tende a diventare più ortodosso, di fronte a movimenti di massa che gli appaiono minacciati da forme di estetismo e attivismo anarchico. Del resto, gli eretici tendono spesso a diventare più ortodossi degli ortodossi, ragionando in nome di future istituzioni più giuste ma per ora assenti.
La tensione retorica e l’acume analitico di Verifica dei poteri ne fanno il libro forse più importante di Fortini, benché anche il più infelice e astratto, nelle ambizioni inevitabilmente frustrate di un individuo che a volte sembra ragionare come fosse un partito politico. Ma proprio politicamente è anche un libro che soffre di gravi limiti culturali, quelli stessi che hanno minato l’euforia creativo-distruttiva dei movimenti sociali dal 1968 in poi, finiti in terrorismo. Lo sguardo che Fortini rivolgeva al futuro sembra avergli impedito di considerare con più onesta o fredda consapevolezza critica un passato del quale sapeva e doveva sapere tutto.
Aveva letto, studiato, riproposto Kierkegaard, Aleksandr Herzen, Simone Weil: ma dimenticò la loro critica a Hegel, a Marx, all’idea di rivoluzione. Commentò ripetutamente Kafka, ma scelse come guida il comunismo di Brecht. Infine volle ignorare Orwell, Silone, Koestler, Camus, Chiaromonte. Scegliendo di sentirli estranei e di cancellarli, rese miope o cieca la sua ostinata, tormentata fedeltà al marxismo.
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