Ecosocialismo, democrazia e nuova società
…L’ecosocialismo ha come obiettivo quello di fornire un’alternativa radicale di civiltà a ciò che Marx definiva come «il progresso distruttivo» del capitalismo. La proposta è di una politica economica rivolta alle necessità sociali e all’equilibrio ecologico e, pertanto, fondata su criteri non-monetari ed extra-economici. Gli argomenti essenziali a suo sostegno risalgono al movimento ecologista, come pure alla critica marxista all’economia politica, una sintesi dialettica (…) che è allo stesso tempo una critica all’“ecologia di mercato”, che si adatta al sistema capitalista, e al “socialismo produttivista”, che resta indifferente alla questione dei limiti della natura.
Secondo James O’Connor, la meta del socialismo ecologico è una nuova società fondata sulla razionalità ecologica, sul controllo democratico, sull’uguaglianza sociale e sulla supremazia del valore d’uso sul valore di scambio. Io aggiungerei le seguenti condizioni per il raggiungimento di quegli obiettivi: a) la proprietà collettiva dei mezzi di produzione (il termine “collettivo” qui significa proprietà pubblica, comunitaria o cooperativa), b) una pianificazione democratica che possa consentire alla società di definire i propri obiettivi per ciò che riguarda l’investimento e la produzione e c) una nuova struttura tecnologica delle forze produttive. Detto in altro modo, una trasformazione rivoluzionaria a livello sociale ed economico.
Secondo gli ecosocialisti, il problema delle principali correnti dell’ecologia politica, i cui rappresentanti sono i partiti verdi, è che non sembrano tenere conto della contraddizione intrinseca tra la dinamica capitalista – fondata sull’espansione illimitata del capitale e sull’accumulazione dei profitti – e la preservazione dell’ambiente. Il risultato è una critica al produttivismo, molte volte pertinente, ma incapace di andare molto oltre le riforme ecologiche derivate dall’“economia di mercato”. (…).
D’altro lato, il problema delle tendenze dominanti della sinistra del XX secolo – la socialdemocrazia e il movimento comunista di ispirazione sovietica – è che accettavano il modello di produzione esistente. Mentre la prima si limitava a una versione riformata – nel migliore dei casi keynesiana – del sistema capitalista, il secondo sviluppava una forma di produttivismo autoritaria e collettivista, il capitalismo di Stato. In entrambi i casi gli investimenti ambientali erano trascurati o, come minimo, marginalizzati. (…).
L’ideologia del progresso
Il caso dell’Unione Sovietica chiarisce i problemi derivanti da un’appropriazione collettivista della macchina produttiva del capitalismo. La tesi della socializzazione delle forze produttive esistenti è risultata predominante fin dall’inizio.
Certamente, (…) il governo sovietico ha adottato alcune limitate misure di protezione ambientale, ma, con il processo di burocratizzazione stalinista, l’applicazione dei metodi produttivisti, tanto in agricoltura quanto nell’industria, è stata imposta con mezzi totalitari, con conseguente emarginazione o eliminazione degli ecologisti. La catastrofe di Chernobyl è l’esempio finale delle disastrose conseguenze dell’imitazione delle tecnologie occidentali di produzione. Se il cambiamento delle forme di proprietà non è seguito da una gestione democratica e da una riorganizzazione ecologica del sistema di produzione, tutto condurrà a un impasse.
Già negli scritti di alcuni dissidenti marxisti degli anni ’30, come Walter Benjamin, appariva una critica all’ideologia produttivista del “progresso” come pure all’idea di uno sfruttamento “socialista” della natura. Ma è soprattutto nel corso degli ultimi decenni che l’ecosocialismo propriamente detto si è sviluppato come sfida alla tesi della neutralità delle forze produttive che aveva predominato nel seno delle principali tendenze della sinistra durante il XX secolo. (…).
Se il grande valore dei progressi scientifici e tecnologici dell’era moderna è incontestabile, il sistema produttivo deve essere tuttavia trasformato nel suo insieme e questo è possibile solo grazie a procedimenti ecosocialisti, cioè grazie alla creazione di una programmazione democratica dell’economia che tenga conto della preservazione degli equilibri ecologici.
Con conseguente soppressione di alcuni rami della produzione come le centrali nucleari, le tecniche di pesca intensiva e industriale responsabili della quasi estinzione di numerose specie marine, l’abbattimento delle foreste nella regione tropicale, ecc., in base a una lista assai lunga. Tuttavia, la priorità resta la rivoluzione del sistema energetico in grado di condurre alla sostituzione delle fonti attuali, soprattutto fossili, responsabili del cambiamento climatico e dell’avvelenamento dell’ambiente, con fonti energetiche rinnovabili: l’acqua, il vento, il sole. Una questione di fondamentale importanza, considerando che l’energia fossile è responsabile della maggior parte dell’inquinamento del pianeta e del disastro rappresentato dal riscaldamento globale.
L’energia nucleare è una falsa alternativa, non solo per il rischio di nuove Chernobyl, ma anche perché nessuno sa cosa fare delle migliaia di tonnellate di rifiuti radioattivi e della grande quantità di centrali contaminate inutilizzabili. Trascurata da sempre dalle società capitaliste (…), l’energia solare deve diventare oggetto di ricerche e di progetti di sviluppo di eccellenza, assumendo un ruolo centrale nella costruzione di un sistema energetico alternativo.
Programmazione democratica
La condizione necessaria per raggiungere tali obiettivi è il pieno impiego in condizioni di equità. Una condizione indispensabile non solo per rispondere alle esigenze di giustizia sociale, ma anche per asssicurare l’appoggio della classe operaia, senza il quale il processo di trasformazione strutturale delle forze produttive non può avere luogo. Il controllo pubblico dei mezzi di produzione e una programmazione democratica sono ugualmente indispensabili: le decisioni di ordine pubblico relative agli investimenti e al cambiamento tecnologico devono essere sottratte alle banche e alle imprese capitaliste se si vuole che siano al servizio del bene comune della società.
Non basta, tuttavia, porre le decisioni nelle mani dei lavoratori (…): la produzione e il consumo devono essere organizzati in maniera razionale non solo dai “produttori”, ma anche dai consumatori e, di fatto, dall’insieme della società, dalla popolazione produttiva come da quella “non produttiva”: studenti, giovani, donne e uomini che si dedicano ai lavori domestici, pensionati, ecc.
In tal senso, l’insieme della società sarà libero di scegliere democraticamente le linee produttive da privilegiare e la quantità di risorse da investire nell’educazione, nella salute o nella cultura. Gli stessi prezzi dei beni di consumo non risponderebbero più alla legge della domanda e dell’offerta, ma sarebbero determinati quanto più possibile secondo i criteri sociali, politici ed ecologici. (…).
La programmazione democratica associata alla riduzione dell’orario di lavoro sarebbe un progresso considerevole dell’umanità in direzione di ciò che Marx chiamava “il regno della libertà”: l’aumento del tempo libero è in realtà una condizione per la partecipazione dei lavoratori alla discussione democratica e alla gestione dell’economia, come pure della società.
I sostenitori del libero mercato fanno riferimento al fallimento della programmazione sovietica per giustificare la propria opposizione categorica a ogni forma di economia organizzata. Sappiamo (…) che si trattava evidentemente di uma forma di “dittatura sulle necessità”, per citare l’espressione impiegata da György Markus e dai suoi colleghi della Scuola di Budapest: un sistema non democratico e autoritario che affidava il monopolio delle decisioni a un’oligarchia ristretta di tecnoburocrati. Non è stata la programmazione a condurre alla dittatura. È stato il limite crescente della democrazia nel seno dello Stato sovietico con l’instaurazione, dopo la morte di Lenin, di un potere burocratico totalitario a dar luogo a un sistema di programmazione sempre più autoritario e non democratico. Se è vero che il socialismo è definito dal controllo e dai processi di produzione da parte dei lavoratori e della popolazione in generale, l’Unione Sovietica sotto Stalin e i suoi successori era lungi dal corrispondere a tale definizione.
(…). La concezione socialista della programmazione non è nient’altro che la democratizzazione radicale dell’economia: se è vero che le decisioni politiche non devono spettare a una piccola élite di dirigenti, perché non applicare lo stesso principio alle decisioni di ordine economico? La questione dell’equilibrio tra i meccanismi di mercato e quelli della programmazione è senza dubbio un problema complesso: durante le prime fasi della nuova società, i mercati occuperanno ancora, certamente, un posto importante, ma man mano che andrà avanti la transizione al socialismo, la programmazione diventerà sempre più importante in quanto opposta alla legge del valore di scambio. (…).
Il tipo di sistema di programmazione democratica al centro del presente saggio riguarda le principali scelte economiche e non l’amministrazione di ristoranti, drogherie, panetterie, piccoli negozi, imprese artigianali o di servizi. Ed è ugualmente importante sottolineare come la programmazione non sia in contraddizione con l’autogestione dei lavoratori nelle proprie unità di produzione. Se la decisione di trasformare, per esempio, una fabbrica di automobili in un’unità di produzione di autobus o di vagoni del treno dovrebbe spettare all’insieme della società, l’organizzazione e il funzionamento interno della fabbrica sarebbero stabiliti democraticamente dagli stessi lavoratori. C’è stato un grande dibattito sul carattere “centralizzato” o “decentrato” della programmazione, ma l’importante continua a essere il controllo democratico a tutti i livelli, locale, regionale, nazionale, continentale – e, speriamo, planetario, giacché i temi dell’ecologia, come il riscaldamento globale, sono mondiali e possono essere affrontati solo a questo livello. (…).
Dibattito democratico e autogestione
(…). La programmazione socialista deve essere fondata sul dibattito democratico e pluralista, a ogni livello decisionale. (…). In altre parole, la democrazia rappresentativa deve essere arricchita – e migliorata – dalla democrazia diretta che consente alle persone di scegliere direttamente – a livello locale, nazionale e, da ultimo, internazionale – tra diverse proposte. L’insieme della popolazione si interrogherà allora riguardo alla gratuità del trasporto pubblico, a un’imposta speciale sui proprietari di automobili per sovvenzionare il trasporto pubblico, ai sussidi all’energia solare per renderla competitiva rispetto all’energia fossile, alla riduzione della giornata di lavoro a 30 o 25 ore settimanali o meno, anche qualora ciò comportasse una riduzione della produzione. (…).
Una questione si pone: che garanzia abbiamo che le persone faranno le scelte giuste, quelle che proteggono l’ambiente, anche nel caso in cui il prezzo da pagare sia quello di cambiare una parte delle proprie abitudini di consumo? Una tale “garanzia” non esiste, c’è solo la prospettiva ragionevole che la razionalità delle decisioni democratiche finisca per prevalere una volta abolito il feticismo dei beni di consumo. È vero che il popolo commetterà errori con più potere decisionale, ma non commettono errori anche gli esperti? È impossibile concepire la costruzione di una nuova società senza che la maggioranza abbia raggiunto una grande coscienza socialista ed ecologica grazie alle sue lotte, alla sua autoeducazione e alla sua esperienza sociale. È ragionevole allora ritenere che gli errori gravi – comprese le decisioni incompatibili con le necessità legate all’ambiente – saranno corretti. (…). Certamente, perché la programmazione funzioni, sono necessari organismi esecutivi e tecnici in grado di applicare le decisioni, ma la loro autorità sarebbe limitata dal controllo permanente e democratico esercitato dai livelli inferiori, con l’autogestione dei lavoratori nel processo di amministrazione democratica. (…).
Economia partecipativa
L’“economia partecipativa” (o parecon) concepita da Michael Albert è stata oggetto di dibattito all’interno del movimento altermondialista o Global Justice Movement (movimento per la giustizia globale). Malgrado i suoi seri limiti (…), la “parecon” ha alcuni tratti in comune con il genere di programmazione ecosocialista proposto nel presente documento: l’opposizione al mercato capitalista e alla programmazione burocratica, la fiducia nell’auto-organizzazione dei lavoratori e nell’antiautoritarismo. (…).
Il principale problema di questa concezione (…) è che sembra ridurre la “programmazione” a un genere di negoziazione tra produttori e consumatori rispetto ai prezzi, alle risorse, ai prodotti finali, all’offerta e alla domanda. Per esempio, il consiglio di lavoratori di un’industria di automobili si riunirebbe con il consiglio di consumatori per discutere i prezzi e adattare l’offerta alla domanda. Quel che si omette è proprio il tema principale della programmazione ecosocialista: la riorganizzazione del sistema di trasporto riducendo radicalmente il ricorso al veicolo individuale. (…).
Il modello di Albert si richiama alle strutture tecnologiche e produttive attuali ed è troppo “economicista” per tenere conto degli interessi sociopolitici e socioecologici della popolazione (…). Nella sua concezione, non solo lo Stato come istituzione è messo da parte – che è una scelta rispettabile – ma anche la politica come confronto tra scelte diverse, che siano di ordine economico, sociale, politico, ecologico, culturale e di civiltà, a livello locale, nazionale e internazionale.
Questo punto è molto importante perché il passaggio dal “progresso distruttivo” del sistema capitalista al socialismo è un processo storico, una trasformazione rivoluzionaria e costante della società, della cultura e delle mentalità, e la politica nel senso più ampio è innegabilmente al cuore di tale processo. È importante precisare che una tale evoluzione non può nascere senza un cambiamento rivoluzionario delle strutture sociali e politiche e senza l’appoggio attivo di una grande maggioranza della popolazione al programma ecosocialista. (…). Tale transizione non condurrebbe solo a un nuovo modo di produzione e a una società democratica ed egualitaria, ma anche a uno stile di vita alternativo, una vera civiltà ecosocialista al di là dell’impero del denaro con le sue abitudini di consumo artificialmente indotte dalla pubblicità e la sua produzione illimitata di beni inutili e/o dannosi all’ambiente.
Ideologia della “decrescita”
Alcuni ecologisti ritengono che l’unica alternativa al produttivismo sia quella di porre fine alla crescita nel suo insieme o di sostituirla con una crescita negativa, a volte definita “decrescita”, riducendo drasticamente a tale scopo il livello eccessivo di consumo da parte della popolazione (…). Contro prospettive così pessimiste, alcuni socialisti mostrano un ottimismo che li porta a considerare come il progresso tecnico e l’utilizzo di fonti di energia rinnovabili permetteranno una crescita illimitata e la prosperità, in modo che ciascuno possa ricevere “secondo le proprie necessità”.
Mi sembra che queste due scuole condividano una concezione puramente quantitativa della “crescita” – positiva o negativa – e dello sviluppo delle forze produttive. Penso che esista una terza posizione che mi pare più appropriata: una vera trasformazione qualitativa dello sviluppo. Ciò implica porre fine allo spreco mostruoso di risorse provocato dal capitalismo, fondato su una produzione in grande scala di prodotti inutili e/o dannosi. L’industria delle armi è un buon esempio, come pure tutti quei “prodotti” fabbricati nel sistema capitalista – con l’obsolescenza programmata – che non hanno altra utilità che quella di generare profitto per le grandi imprese. (…).
Una nuova società orienterebbe la produzione in direzione della soddisfazione delle necessità autentiche, a cominciare da quelle che potremmo definire “bibliche” – acqua, cibo, abiti e casa – ma aggiungendo ad esse i servizi essenziali: la salute, l’educazione, la cultura e il trasporto.
È evidente che i Paesi in cui tali necessità sono lungi dall’essere soddisfatte, cioè i Paesi dell’emisfero Sud, dovranno “svilupparsi” molto di più – costruire reti ferroviarie, ospedali, sistemi fognari e altre infrastrutture – dei Paesi industrializzati, ma ciò dovrebbe essere compatibile con un sistema di produzione fondato sulle energie rinnovabili e non dannose per l’ambiente. Tali Paesi avranno necessità di produrre grandi quantità di alimenti per le proprie popolazioni colpite dalla fame, ma – come sostengono da anni i movimenti contadini organizzati a livello internazionale dalla rete Via Campesina – si tratta di un obiettivo assai più facile da raggiungere attraverso l’agricoltura biologica contadina organizzata in unità familiari, cooperative o fazendas collettive che tramite i metodi distruttivi e anti-sociali dell’industria dell’agribusiness, il cui principio è l’uso intensivo di pesticidi, di sostanze chimiche e di alimenti transgenici. (…). Non ci sarebbe alcuna necessità (…) di ridurre, in termini assoluti, il livello di vita delle popolazioni europee o nordamericane. Basterebbe semplicemente che queste popolazioni si liberassero dei prodotti inutili, quelli che non soddisfano alcuna necessità reale e il cui consumo ossessivo è sostenuto dal sistema capitalista. Riducendo il proprio consumo, esse ridefinirebbero il concetto di livello di vita per far spazio a uno stile di vita che sarebbe in realtà molto più ricco.
Vere e false necessità
Come distinguere le necessità autentiche da quelle artificiali, false o simulate? L’industria della pubblicità – che esercita la sua influenza attraverso la manipolazione mentale – ha penetrato tutte le sfere della vita umana nelle società capitaliste moderne. (…).
Questo settore contribuisce direttamente ad abitudini di consumo ostentato e compulsivo. E scatena uno spreco fenomenale di petrolio, di elettricità, di tempo di lavoro, di carta e di sostanze chimiche, tra molte altre materie prime, tutto pagato dai consumatori. (…). Se la pubblicità è una dimensione indispensabile in un’economia di mercato capitalista, essa non avrebbe più spazio in una società in transizione verso il socialismo, ma sarebbe sostituita da informazioni sui prodotti e i servizi fornite dalle associazioni dei consumatori. Il criterio, per distinguere una necessità autentica da una artificiale, sarebbe la sua sopravvivenza o meno dopo la soppressione della pubblicità. È chiaro che per um certo tempo le antiche abitudini di consumo persisteranno, perché nessuno ha il diritto di dire alle persone di cosa hanno bisogno. Il cambiamento dei modelli di consumo è un processo storico e una sfida educativa.
Alcuni prodotti, come l’automobile individuale, presentano problemi più complessi. Le automobili individuali (…) inquinano l’aria delle grandi città – con conseguenze nefaste per la salute dei bambini e degli anziani – e contribuiscono considerolmente al cambiamento climatico. Inoltre, l’automobile individuale soddisfa le necessità reali nelle condizioni attuali del capitalismo. (…).
In un processo di transizione all’ecosocialismo, il trasporto pubblico sarebbe ampiamente diffuso e gratuito – tanto sulla superficie che sotto terra –, mentre le vie sarebbero sicure per pedoni e ciclisti.
Conseguentemente, l’automobile individuale avrebbe un ruolo molto meno importante che nella società borghese, nella quale è diventata un prodotto-feticcio promosso da una pubblicità insistente e aggressiva. (…). L’ecosocialismo è fondato su un’ipotesi ragionevole, già avanzata da Marx: la predominanza dell’“essere” sull’“avere” in una società senza classi sociali né alienazione capitalista, cioè la priorità del tempo libero sul desiderio di possesso senza limiti: la realizzazione personale per mezzo di vere attività culturali, sportive, ludiche, scientifiche, erotiche, artistiche e politiche. Il feticismo della merce incita all’acquisto compulsivo attraverso l’ideologia e la pubblicità proprie del sistema capitalista. Nulla dimostra che ciò faccia parte dell’“eterna natura umana”. (…).
Come già è stato accennato, ciò non significa, soprattutto durante il periodo di transizione, che i conflitti non esisteranno più: conflitti tra le necessità di protezione ambientale e le necessità sociali, tra gli obblighi relazionati all’ecologia e la necessità di sviluppare le infrastrutture di base, notoriamente nei Paesi poveri, tra le abitudini popolari di consumo e l’assenza di risorse. Una società senza classi sociali non è una necessità senza contraddizioni né conflitti. Questi ultimi sono inevitabili, e il ruolo della programmazione democratica sarà, in una prospettiva ecosocialista libera dalla pressione del capitale e del lucro, risolverli grazie a discussioni aperte e pluraliste (…). Una tale democrazia, comune e partecipativa, è l’unico mezzo non di evitare errori ma di correggerli attraverso la stessa collettività sociale.
Comunismo solare
Si tratta di un’utopia? In senso etimologico – “qualcosa che non esiste in alcun luogo” –, certamente. Tuttavia, le utopie, cioè le visioni di un mondo alternativo, le immagini ideali di una società diversa, non sono una caratteristica necessaria a ogni movimento che mira a sfidare l’ordine stabilito? Come spiega Daniel Singer nel suo testamento letterario e politico, A qui appartient l’avenir?, in un potente capitolo intitolato “Une utopie realiste”: «Se l’establishment sembra tanto solido malgrado le circostanze, e se il movimento dei lavoratori – o la sinistra in generale – è tanto debole e paralizzato, è perché da nessuna parte si presenta un progetto alternativo radicale (…)».
L’utopia socialista ed ecologica è appena una possi bilità oggettiva. (…) Si può prevedere il futuro solo al condizionale: la logica capitalista condurrà a disastri ecologici drammatici, minacciando la salute e la vita di milioni di esseri umani e anche la sopravvivenza della nostra specie, se non si registrerà un cambiamento radicale del paradigma di civiltà e una trasformazione ecosocialista.
Sognare un socialismo verde o, come lo chiamano alcuni, un comunismo solare, e lottare per questo sogno, non vuol dire non sforzarsi di applicare riforme concrete e urgenti. Se non dobbiamo nutrire illusioni su un “capitalismo pulito”, dobbiamo tuttavia cercare di guadagnare tempo e imporre ai poteri pubblici alcuni cambiamenti elementari: il divieto dei gas clorofluorocarburi che stanno distruggendo la fascia d’ozono, una moratoria generale sulla produzione di organismi geneticamente modificati, una riduzione drastica delle emissioni di gas a effetto serra, una rigida regolamentazione della pesca industriale e dell’uso di pesticidi e di sostanze chimiche nella produzione agroindustriale, una tassa sulle automobili inquinanti, uno sviluppo molto più forte del trasporto pubblico, la sostituzione progressiva dei camion con i treni. (…).
Queste rivendicazioni ecosociali urgenti possono condurre a un processo di radicalizzazione a condizione che non vengano adattate alle esigenze della “competitività”. Secondo la logica di quello che i marxisti definiscono come “programma di transizione”, ogni piccola vittoria, ogni passo avanti parziale conduce a una rivendicazione più importante, a un obiettivo più radicale. Queste lotte intorno a questioni concrete sono importanti non solo perché le vittorie parziali sono utili in sé, ma anche perché contribuiscono a una presa di coscienza ecologica e socialista. Oltre a questo, tali vittorie favoriscono l’attività e l’auto-organizzazione a partire dal basso: due pre-condizioni necessarie e decisive per raggiungere una trasformazione radicale, cioè rivoluzionaria, del mondo.
Le esperienze a livello locale, come le aree libere da automobili in diverse città europee, le cooperative di agricoltura organica lanciate dal Movimento dei lavoratori rurali senza terra in Brasile o il bilancio partecipativo di Porto Alegre sono esempi limitati ma non insignificanti di un cambiamento sociale ed ecologico. Con le sue assemblee locali che decidevano le priorità di bilancio, Porto Alegre era forse, malgrado i limiti e fino alla sconfitta della sinistra alle elezioni municipali del 2002, l’esempio più interessante di una “programmazione a partire dal basso”. Dobbiamo ammettere tuttavia che per quanto alcuni governi abbiano adottato alcune misure progressiste, le coalizioni di centro-sinistra o “rossoverdi” in Europa e in America Latina sono risultate deludenti, in quanto condizionate dai limiti delle politiche socioliberali di adattamento alla globalizzazione capitalista.
Non ci sarà trasformazione radicale finché le forze impegnate in un programma radicale socialista ed ecologico non diventeranno egemoniche nel senso in cui lo intendeva Antonio Gramsci. In un certo modo, il tempo è nostro alleato, perché noi lavoriamo per l’unico cambiamento in grado di risolvere i problemi dell’ambiente, la cui situazione non fa che aggravarsi sotto il peso di minacce – come il cambiamento climatico – sempre più incombenti.
D’altro lato, i giorni sono contati e in alcuni anni – nessuno sa quanti – i danni potranno essere irreversibili. Non c’è motivo di essere ottimisti: il potere delle attuali élite alla guida del sistema è immenso e le forze di opposizione radicale sono ancora modeste. Tuttavia, sono l’unica speranza che abbiamo per porre un freno al “progresso distruttivo” del capitalismo. Walter Benjamin proponeva di definire la rivoluzione non come la “locomotiva della storia”, ma come l’azione salvifica dell’umanità che aziona i freni di emergenza prima che il treno finisca nell’abisso…
(Adista documenti, n.31 del 14/9/2019)