Ecco cosa resta del complotto di Gelli trent’anni dopo
di Sandra Bonsanti
Finito lo sfogo per la mia intrusione oltre il cancello di Villa Wanda il Venerabile si abbandonò a espressioni di arrendevole rimpianto: «Avevo creato un’oasi di pace e di tranquillità per i migliori…». Questo era stata per lui la loggia P2. Era il 21 aprile del 1988 e Repubblica ebbe la prima intervista con Gelli, appena rilasciato dal carcere, e “Il Venerdì” quel servizio fotografico che ci aveva portato ad Arezzo. In quelle due ore ci accusò di tutto, ma soprattutto di aver distrutto la sua vita insieme a quel formidabile mezzo di controllo delle istituzioni che aveva progettato e costruito per ostacolare la trasformazione dell’Italia “in una roccaforte del marxismo”. Questa “nobile” interpretazione (la loggia segreta come uno dei molti strumenti della guerra fredda) fu sostenuta nel tempo anche da Francesco Cossiga, ma, trent’anni dopo la grande scoperta, va ancora ricordato che l’oasi creata da Licio Gelli fu tutt’altro.
Fu, prima di tutto, un potente intreccio di militari, politici, giornalisti, magistrati e finanzieri pronti ad appoggiare il passaggio, anche traumatico, se necessario, dalla Costituzione del ’48 a un’Italia gollista e presidenzialista secondo la massima ben riassunta da Gelli: «Governare non vuol dire perdere tempo ma risparmiarlo » (Sandro Neri, Parola di Venerabile). Ma come arrivarci? La strategia del Venerabile cambiò negli anni: direttamente con tentativi di colpi di Stato (fino al 1974); attraverso il controllo e la conquista dall’interno delle istituzioni dopo di allora.
Ed è in questa seconda fase che si dispiega l’azione più insidiosa della P2, quella che appare ancora oggi vincente e che ha avuto tre obiettivi di fondo: il controllo della comunicazione (giornali e Tv); il controllo della magistratura; il controllo delle forze politiche. Tutte, di qualunque colore. Quanto al Pci, che non aveva iscritti alla P2, fu però incline a una sorta di “rispetto istituzionale” per la loggia che vantava l’amicizia di Giulio Andreotti. Ricevere, ad esempio, finanziamenti da Calvi e dall’Ambrosiano non sembrò disdicevole, dal momento che, si diceva, “tutti i banchieri sono uguali”.
Trent’anni fa però, quando, il 20 maggio il presidente del Consiglio Forlani fu costretto a consentire la pubblicazione delle liste e a lasciare il governo al laico Spadolini che sciolse la loggia, ci fu un breve periodo di dignità della politica e del Parlamento decisi a capire quell’antistato più forte dello Stato che li aveva espropriati del loro ruolo. Un brevissimo momento, su cui vegliarono tre personaggi straordinari e diversissimi per storia e radici: Sandro Pertini, presidente della Repubblica, Nilde Jotti, presidente della Camera dei deputati e Tina Anselmi, democristiana e partigiana, straordinaria presidente della Commissione di inchiesta. Una sorta di minuscolo Cln, sostenuto da una parte importante di opinione pubblica che riuscì a fare approvare il 6 marzo del 1986 una Risoluzione della Camera dei Deputati firmata da Rognoni, Anselmi, Napolitano, Formica, Rizzo e Battaglia: un documento solenne, di analisi, condanna e proposte tese a garantire nel futuro un processo democratico delle istituzioni basato sulla trasparenza.
Quel momento di dignità fu davvero brevissimo. Le date parlano chiare ed è inevitabile partire da esse quando cerchiamo di capire la storia della P2, sciolta, sì, ma non sconfitta. Il governo Spadolini cadde alla fine di agosto del 1982 (era durato 421 giorni), mentre stava facendo tornare dall’Uruguay l’archivio segreto di Gelli.
Spadolini stesso attribuiva le ragioni della fine del governo alla sua decisa collaborazione con la Commissione Anselmi.
Seguì un breve governo Fanfani e nell’agosto del 1983 fu la volta di Bettino Craxi. La commissione era ancora al lavoro, e Gelli proprio il giorno del giuramento del presidente socialista evase dal carcere svizzero. Quello stesso giorno, il 4 agosto, Craxi parlò sul portone di Montecitorio e ai cronisti dichiarò: «E ora la storia della P2 è morta e sepolta ». Una cappa di sole accecante piombò sui nostri taccuini.
Fine della vicenda, fine della tensione democratica. Gelli libero e evaso, la commissione chiuse i battenti un anno dopo senza esser riuscita ad interrogarlo.
Allora, quando tanti italiani si chiedono oggi come è potuto accadere che un piduista sia diventato presidente del Consiglio (Berlusconi) e un altro il cui nome era negli elenchi di Gelli sia oggi il capogruppo alla Camera del Pdl (Cicchitto), come è potuto accadere che tante cose previste dal piano di Rinascita che Gelli aveva predisposto per la P2 oggi siano parte del programma di governo e molte siano già state realizzate, non si può prescindere da quegli anni Ottanta quando il presidente del consiglio socialista, per la prima volta nella storia della Repubblica, rompeva gli equilibri tra poteri dello Stato e attaccava i magistrati («farò i conti con loro») che indagavano su Calvi, su Teardo o sul giudice Palermo, sosteneva con decreti ad personam l’espandersi della Fininvest e vagheggiava, anche lui, un presidenzialismo certamente meno becero di quello inseguito da Silvio Berlusconi.
E non si può prescindere dalla Presidenza della Repubblica: dopo Sandro Pertini, il presidente che non strinse mai la mano ai piduisti, arrivò Francesco Cossiga, il presidente delle trame che chiamava “galantuomini” gli iscritti alla P2 e aveva gestito il caso Moro insieme agli uomini di Gelli.
Insomma, se trent’anni dopo vogliamo capire in che momento progetti e protagonisti della loggia segreta si siano imposti sulla scena politica italiana, è inevitabile riflettere su quanto fu breve anche se intensa la fase del rifiuto della P2, mentre i motivi veri per i quali agli italiani siano toccati in dote Michele Sindona e Roberto Calvi, Licio Gelli e Silvio Berlusconi, le stragi e i complotti e perché facciano tanta fatica a liberarsene sono tuttora abbastanza inesplorati. E il Venerabile, nella sua oasi aretina, insiste ancora beffardo a rivendicare la paternità del progetto politico.
(“La Repubblica”, 19 maggio 2011)