E scomparve la ferula conciliare

più avanti: il Baldacchino di Gian Lorenzo Berninidi Alberto Melloni

Pochi al mondo sanno chi è Lello Scorzelli. Ma un numero immenso di esseri umani ha visto almeno una sua opera, piccola, del peso di pochi chili, ma di immenso significato. A questo scultore napoletano nato all’inizio degli anni Venti, con studio in Vaticano, Paolo VI commissionò per la chiusura del Concilio una nuova «ferula»: cioè quel bastone sormontato dalla croce, sul quale Scorzelli pose anche un Gesù crocifisso, esile ed eppure capace di piegare col peso della sua concentrata sofferenza la trave del più celebre e delicato simbolo cristiano.

Le foto conclusive del Vaticano II vedono Paolo VI portare questo segno che apparteneva dal Medioevo al corredo pontificio, ma che dal Cinquecento veniva usato solo in circostanze molto rare. Lo aveva con sé, quasi come una estensione statuaria, anche quando celebrò la messa in morte di Moro. E lo lasciò ai successori. Giovanni Paolo I e poi Giovanni Paolo II, che iniziò a brandirlo, ad alzarlo, a farlo volare con sé in ogni angolo del mondo: con una ritrovata audacia prima, poi come un perno attorno a cui raccogliersi nell’intensità della preghiera e infine come un sostegno al quale aggrapparsi, debole e sfinito.

Un segno talmente universale da apparire ineludibile perfino per Maurizio Cattelan: nella sua provocazione su La nona ora – la scultura con Wojtyla abbattuto da un meteorite che giustamente monsignor Franco Giulio Brambilla volle fosse isolata dal resto delle opere nell’esposizione dedicata da Milano all’artista un anno fa – quella ferula crolla col Papa. Ed è proprio la mancanza di quel segno così inconfondibile che fa sembrare il Wojtyla di Oliviero Rainaldi, messo davanti alla Stazione Termini, una garritta o peggio.

Ebbene, da qualche tempo la ferula di Scorzelli è scomparsa dalle cerimonie del Pontefice.

Dalle Palme del 2008 Benedetto XVI ha ripreso a usare (prima in originale, poi in una copia) il bastone con la croce d’oro donata a Pio IX nel 1877 e usata dai pontefici fino al Concilio. Il crocifisso di Scorzelli (contro il quale si sono scagliate le psicosi dei tradizionalisti che vedono tutt’attorno le ossessioni che popolano le loro anime) resta nei rosari che il Papa regala ai suoi ospiti, ma non percorre più le strade di Roma e del mondo.

Un fatto senza significato? Non è detto: come ci hanno insegnato i grandi studi di Agostino Paravicini Bagliani, i gesti, gli abiti, i riti che circondano il Pontefice hanno un peso che non è legato al loro contenuto, ma alla elaborazione che li circonda.

E questo riguarda anche la ferula: simile per funzioni al bastone pastorale che appare nelle miniature dei Concili toletani già dall’VIII secolo e poi nell’arte sacra, si distingue da quello perché privo di quella curvatura che la tradizione occidentale aveva e che i patriarchi del Mediterraneo non usavano.

Nella Roma del secolo XIII, che vede ormai prevalere la forma monarchica del papato che segnerà tutto il secondo millennio cristiano, si teorizzava la differenza fra ferula e pastorale: dopo Innocenzo III si sostiene che il pastorale si curva per indicare la dipendenza dei vescovi (la coarctatam potestatem, quod curvatio baculi significat cita San Tommaso), mentre la ferula ne è priva per simboleggiare la pienezza della potestà del Papa. Ma la ricezione formale della ferula, che nel rito di incoronazione veniva consegnata al nuovo Pontefice dall’arciprete di San Lorenzo, cede il passo ad altri segni, come il triregno, e dopo il Cinquecento diventa un oggetto di uso raro.

Quando la ferula riappare, lo scultore Lello Scorzelli vi introduce una curvatio che enuncia l’obbedienza del vescovo di Roma al mistero della Croce. Quella curvatio del discepolato Paolo VI la fa sua: ed entra così in piazza San Pietro alla fine del Concilio Vaticano II, l’8 dicembre 1965, il giorno dopo il ritiro delle scomuniche fra Chiesa d’Oriente e Chiesa d’Occidente. Un’opera d’arte, quella ferula di Lello Scorzelli, che segna la ricomprensione del ministero petrino al quale i vescovi di Roma del secondo Novecento si sono applicati con una dedizione superiore ai risultati, per ora.

Che il finissimo gusto per l’antiquariato liturgico di chi organizza le cerimonie papali voglia fare a meno della ferula che Giovanni Paolo II aveva fatto diventare il suo triregno teologico, è evidente. Che il senso politico delle Chiese ritenga che del crocifisso abbiano bisogno i luoghi pubblici di questa Europa dai sinistri scricchiolii, è comprensibile. Che della eloquenza semplice e forte di quel segno sia la sola cosa di cui ha bisogno la Chiesa, è un fatto

(www.corriere.it , sez.”Cultura”, e “Il Corriere della sera”, 8 febbraio 2012)

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