Dobbiamo desiderare il futuro

di Mario Calabresi

Un secolo e mezzo ci appare come un tempo lunghissimo: il 1861 sembra appartenere soltanto ai libri di scuola, eppure 150 anni altro non sono che sei generazioni. Se guardo alla data di nascita di mia nonna sono già nel 1915 – alla vigilia della Prima guerra mondiale -, e se lei si voltava indietro a ricordare il suo di nonno allora era subito il tempo di Cavour. Questa storia ci appartiene, dovrebbe rassicurarci, eppure oggi prevale un senso di smarrimento e molti si chiedono cosa ci sia da festeggiare: dobbiamo forse fare i fuochi d’artificio per la speranza e i desideri che abbiamo perduto? Forse c’è da essere contenti per un Paese che anno dopo anno rallenta il suo slancio e si mangia i suoi risparmi? Un’Italia affaticata per quale motivo deve fermarsi a celebrare, perché dovrebbe mettere la bandiera alla finestra?

Dovrebbe metterla per ritrovare se stessa, dovrebbe fermarsi perché potrebbe ricordare che i desideri, la realizzazione personale e gli slanci individuali sono capaci di fare la storia se navigano insieme a quelli di milioni d’altri, se fanno parte di un progetto collettivo, se sentono di appartenere ad un’idea forte capace di far dimenticare le paure, di dare coraggio davanti alle difficoltà. Un’idea che parli di futuro, di impegno, di merito, di valore.

L’esempio è lì nelle nostre memorie familiari: ci siamo tirati fuori dall’arretratezza, dalla povertà, dall’analfabetismo, abbiamo costruito quel miracolo economico che ancora oggi ci permette di stare in piedi in tempi di crisi di tutto l’Occidente.

Molto di ciò che siamo oggi è frutto del risparmio dei nostri genitori e dei nostri nonni, di quelle generazioni che hanno saputo archiviare il fascismo, le macerie della guerra, che hanno avuto l’energia per rimettersi in piedi, così come i loro nonni alla fine dell’Ottocento erano stati in grado di far fare il primo grande salto all’Italia.

Per me la festa di oggi serve a celebrare la memoria di mio nonno Mario, figlio di un artigiano del metallo, un italiano come molti della sua generazione, un italiano che si è fatto da solo ricostruendo la sua vita insieme a quella del Paese. Era nato nel novembre del 1914 e portò i pantaloni corti fino a diciassette anni. Si laureò in economia e commercio in quattro anni, lavorando di giorno e studiando la notte, si sposò nel gennaio del 1940, il tempo per il viaggio di nozze a Roma, per traslocare nella nuova casa e venne chiamato sotto le armi come ufficiale responsabile di un ospedale da campo. Ebbe due licenze per tornare a casa: nella prima conobbe il suo primogenito e ognuna di queste significò un allargamento della famiglia. «Non ci siamo mai messi a fare i conti e a ragionare sul momento più giusto e opportuno per fare un figlio – sottolineava mia nonna – altrimenti avremmo aspettato gli Anni Cinquanta e non ne avremmo mai avuti sette, oggi invece l’Italia è frenata da troppe paure e dalla pretesa che la vita e i suoi slanci si possano programmare razionalmente».

Nel 1943 dai Balcani venne deportato in campo di prigionia in Germania dove patì la fame. Per il resto della sua vita, alla fine di ogni pasto, fece istintivamente lo stesso gesto: raccoglieva le briciole di pane vicino al suo piatto e se le buttava in bocca prima di alzarsi. «Se hai mangiato l’erba per disperazione non sopporti di vedere che si sprechino le cose». Alla fine della guerra si inventò imprenditore tessile comprando delle coperte di lana militari e trasformandole in pastrani per il primo inverno post bellico. Si trasferì a Milano e fece fortuna, ebbe molte idee originali ma non sarebbero state nulla se le banche non gli avessero fatto credito e se non avesse trovato chi era disposto a rischiare e scommettere su un giovane di trent’anni.

Se i suoi sette figli e i suoi 21 nipoti vivono in una casa di proprietà lo devono alla sua convinzione che risparmiare e non sprecare è un dovere e che bisogna sempre pensare a chi viene dopo.

Quando la sua azienda andò in crisi a metà degli Anni Settanta non gli venne in mente di chiudere o licenziare, ma vendette i gioielli di famiglia, un po’ di terra che aveva comprato e cambiò stile di vita, così riuscì a restare in piedi e a ripartire. Ebbe la tentazione di mollare tutto durante gli Anni di piombo, ma invece si aprì al mondo, cominciò a guardare ai Paesi arabi, agli Stati Uniti e al Giappone e morì prima di riuscire a vedere il crollo del Muro di Berlino che considerava la più grande ferita d’Europa.

Se io impasto la sua storia normale e «borghese» con quella di tutti quelli che ci hanno fatto sentire orgogliosi di essere italiani: gli eroi silenziosi e caparbi come Giorgio Ambrosoli; i magistrati e i poliziotti che hanno combattuto la mafia, il terrorismo e la corruzione; i volontari che hanno scavato tra le macerie del terremoto del Friuli e dell’Irpinia o che hanno spalato il fango a Firenze dopo l’alluvione del 1966; i maestri e le maestre che ci hanno insegnato a leggere e scrivere senza guardare al portafoglio; i condannati a morte della Resistenza che ci hanno lasciato le loro lettere; gli emigranti che dopo aver attraversato il Paese e gli oceani con le valigie piene di legumi e coperte hanno costruito il boom economico; gli inventori del Made in Italy che hanno portato lo stile italiano in ogni angolo del mondo; i geni che hanno regalato al mondo il radar, il telefono, la radio, la Vespa, la Lettera 22 e la Nutella. Se metto tutto questo insieme allora non ho dubbi: facciamo bene a ricordarli, a festeggiare, a mettere il tricolore alla finestra e a usarli come modello.

Questo siamo chiamati a ricordare oggi, quello che hanno costruito i nostri nonni, le loro conquiste, i loro sacrifici, i loro errori e i sogni che hanno coltivato in un tempo in cui si era convinti che fosse indispensabile guardare sempre avanti e lasciare il Paese un po’ meglio di come lo si era trovato. Ma dobbiamo soprattutto imparare di nuovo a desiderare il futuro.

(“La Stampa”, 17 marzo 2011)

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