Del Noce, il cristiano che non volle essere moderno
di Gianni Vattimo
Augusto Del Noce,che era nato a Pistoia nel 1910, fu anche lui tra gli allievi del torinese liceo D’Azeglio, dove si formarono i tanti intellettuali che fecero della capitale subalpina uno dei massimi centri della cultura antifascista degli anni a cavallo della seconda guerra mondiale. Ma non era uno degli allievi di Augusto Monti, e per molti aspetti questo è come emblematico della sua diversa formazione e poi del suo pensiero maturo.
Francamente antifascista,ma insieme fin da giovane sincero cattolico e lettore di Maritain ai tempi in cui quest’ultimo sosteneva le ragioni dei repubblicani di Spagna, Del Noce fu la voce anti-illuminista dell’antifascismo torinese, nell’ambito del quale fu vicino a Felice Balbo e al romano Franco Rodano, autori alla fine della guerra di un effimero tentativo di creare un movimento dei «comunisti cattolici».
Il fatto è che – come spiega Luca Bagetto in uno dei più lucidi e informati libri su quel periodo della storia culturale di Torino (Il pensiero della possibilità, Paravia, 1993) – Del Noce si era trovato a simpatizzare con il marxismo considerandolo come una possibile via di superamento dell’idealismo, fino ad allora dominante in Italia; e vedendovi anche un possibile fattore di purificazione del cristianesimo dall’imborghesimento del periodo fascista.
Antifascismo, «tentazione» catto-comunista, sforzo diuscire dal clima idealista dominante costruendo una cultura cattolica capace di contribuire al rinnovamento civile dell’Italia – tutti questi furono anche i contenuti migliori della Democrazia Cristiana del dopoguerra, e ponevano Del Noce al centro più vivo del dibattito di quegli anni, in cui dimensione politica e dimensione religioso-filosofica si incrociavano anche negli stessi personaggi e nei loro rapporti: per esempio Pavese vicino al tomista Carlo Mazzantini, e lo stesso Del Noce in continuo dialogo con Bobbio e il gruppo della Einaudi, al quale apparteneva in posizione eminente il nobile cattolico Sergio Cotta.
Oltre che nel citato libro di Bagetto, la rievocazione delclima di quella Torino del dopoguerra i lettori la troveranno, di prima mano, in tante pagine de “Il problema dell’ateismo”, che ora Il Mulino opportunamente ristampa.
Si tratta solo di un documento di significato storico? Non pensano così, ovviamente, i tanti discepoli e cultori che Del Noce ha avuto negli anni, a cominciare da Rocco Buttiglione che ne ha coltivato anche, e specialmente, l’eredità politica, in una direzione che ha accentuato l’intento anti-illuministico e antimoderno del pensiero del maestro. Tuttavia una certa sensazione di lontananza non possiamo evitarla, se pensiamo a come si parla oggi di ateismo.
La tesi che regge il libro, e tutto il pensiero di Del Noce, è che l’ateismo sia l’anima stessa della modernità, la quale ha considerato e vissuto se stessa come una progressiva presa d icongedo dalla trascendenza.Quella che in altri termini si chiama secolarizzazione è per l’appunto la progressiva scomparsa del riferimento al sacro afavore di una visione della storiache ha sempre più come esclusivo protagonista l’homo faber.
E’ legittimo questo distacco progressivo dalla trascendenza? La «verità» della modernità, pensa Del Noce, è solo nella pretesa che, posto ciò che è avvenuto, oggi «non sia più possibile» parlare di trascendenza.Insomma, non sembra abbia alcun senso pensare la storia umana se non come una affermazione sempre più piena dell’immanenza. Se si vuole provare a costruire una linea alternativa allo storicismo immanentistico moderno bisogna cominciare a riannodare il filo che lega il pensiero cristiano alla metafisica greca: qui Del Noce è buon discepolo di Carlo Mazzantini, che non voleva essere chiamato tomista (meno che mai neo-tomista) ma metafisico classico.
Proprio la metafisica greca,con il suo insistere sull’essere che si dà come «oggetto» al pensiero, con le sue leggi e le sue essenze, è ciò che si deve opporre allo storicismo razionalistico della modernità. Non è vero metafisicamente – che si deve essere moderni e cioè prendere come inevitabile il distacco dalla trascendenza, poiché è (ormai) un fatto, dunque la realtà stessa. Ma, domandiamo: sarà metafisicamente postulatorio: alla base della assunzione del processo di progressiva secolarizzazione del pensiero e dei costumi c’è una decisione, quella di rifiutare la dottrina del Peccato originale e dunque di assumere la condizione attuale dell’uomo come sua condizione normale.
L’anelito a un oltre dalla storia, alla vita eterna, la stessa idea di una radicale trasformazione della nostra esistenza, che si pensi come redenzione o come rivoluzione, testimoniano che non possiamo restare solo sul piano dell’immanenza. Risuonano qui, nel discorso di Del Noce, sia motivi dell’esistenzialismo (che lo accomunano a un altro maestro torinese, Luigi Pareyson), sia una eredità di Cartesio (a cui Del Noce dedicò significativi studi), per il quale, come si sa, il cogito rinvia immedia-tamente all’idea dell’infinito che è in noi e che proviene da Dio.
Mentre questi motivi esistenzialistici conservano tutta la loro attualità (la condizione attuale dell’uomo non è la sua condizione normale, l’unica possibile), l’idea della modernità co me necessariamente destinata all’ateismo sembra più caduca. Che direbbe Del Noce di una post-modernità che proprio nel la dissoluzione della rigidità del la metafisica greca trova nuove vie aperte anche per la coscienza religiosa? Per non chiudersi nello storicismo unilineare della modernità Del Noce non dovrebbe più considerare l’ateismo come l’esito necessario che la condanna. Ci sono buoni motivi – come insegnava del resto il suo Pascal – per azzardare scommesse diverse.
(Articolo tratto da “Tuttolibri de “La Stampa”, n.1726 del 7 agosto 2010, pag. IV-V)