Corpo, potere, vulnerabilità. 11 settembre 1973, Cile
di Diamela Eltit
L’11 settembre 1973, cingendo d’assedio il palazzo de La Moneda dove era rifugiato il presidente Salvador Allende, il generale Pinochet rovesciò il governo democraticamente eletto. Il golpe e la dittatura hanno rappresentato per il Paese un trauma collettivo che si è protratto ben più a lungo della sua effettiva durata e con il quale gli intellettuali cileni stanno ancora facendo i conti. All’epoca dei fatti Diamela Eltit, scrittrice tra le più influenti di tutto il Sud America, aveva solo 24 anni.
In Errante, erratica. Pensare il limite tra letteratura, arte, politica (a cura di Laura Scarabelli, Mimesis Edizioni), di cui proponiamo di seguito un breve estratto, Eltit ci accompagna tra gli spettri della dittatura e ricostruisce l’angoscia di quel periodo.
Voglio tornare all’11 settembre e al suo impressionante dispiegamento scenografico già primordialmente marcato da quei segni che si sarebbero poi moltiplicati per 17 lunghi anni.
Quel giorno le uniformi dei soldati tappezzate da distintivi, i volti scolpiti, le armi in posizione d’attacco, furono figure decisive in grado di rappresentare l’atmosfera di una guerra che sembrava evocare la ben nota cinematografia hollywoodiana bruscamente trasferita alla neutra e circoscritta città di Santiago. L’immagine del soldato armato fino ai denti, con il suo sguardo mobile e nervoso, in cerca del nemico, divenne simmetrico e funzionale ai rigidi squadroni militari che, numerati in un ordine maniacale ora senza fine, ratificavano proclami che dovevano essere rispettati, uno e un altro ancora, dato che, oltre alle voci enfatiche e gli schieramenti militari, fuori, nelle città, i soldati attraversavano le strade, vigili, sempre pronti all’attacco, sopra i loro carri armati e cingolati, impettiti a tal punto che era impossibile distinguere una presumibile posa (cinematografica) da un reale desiderio di eliminare qualsiasi “nemico” attraversasse il loro cammino.
La voce del presidente Salvador Allende si riuscì ad ascoltare, con alcune interferenze, grazie a due emittenti radiofoniche ancora non occupate. Queste due radio trasmisero quello che sarebbe stato l’ultimo discorso presidenziale, un discorso che veniva registrato dalla Casa di Governo e che, al di là della sua natura di tragico documento storico, costituiva un appello ai lavoratori, al futuro della democrazia, esortava a mantenere un atteggiamento di cauta resistenza e, nelle pieghe di quella stessa cautela richiesta ai suoi simpatizzanti e sostenitori, rivelava il tono scoraggiato di un leader di fronte a un colpo di Stato che chiaramente sapeva, e noi sapevamo – attraverso le sfumature decadenti del suo timbro di voce – essere ormai irreversibile.
E, oltre agli annunci militari e dei soldati, era imminente il bombardamento della casa del Governo, La Moneda. Aerei da guerra stavano per lanciare le loro bombe niente meno che in pieno centro. Stavano per sganciare i loro ordigni nel cuore della città per destituire definitivamente il presidente Salvador Allende e, in questo modo, cancellare un pezzo di storia democratica, interpretata – questo lo avrebbero proclamato in seguito – come la parte da estirpare del “cancro marxista”.
E ancora, oltre ai proclami, oltre ai soldati, all’imminente bombardamento de La Moneda – che dicevano sarebbe avvenuto a mezzogiorno – un certo numero di aerei volava raso terra sulla città, il tremendo ronzio del volo raso terra di quegli aerei che sembravano venirci addosso, da un momento all’altro, fracassandosi sul tetto di una casa (della mia casa, di quella del mio vicino, come dire, di tutte le case).
E anche gli spari. Raffiche intermittenti di mitragliatrice iniziavano a convertirsi in uno dei tanti rumori della città. In aria, a terra. E nelle città costiere, in aria, a terra e in mare, le forze armate mostravano così il loro allucinante potere armato che si dispiegava a più non posso per avere la meglio su quel nemico annidato in ogni recondito anfratto, insenatura e nascondiglio offerto dal territorio, quel nemico che, poco a poco, grazie ai voli rasoterra, al ronzio delle mitragliatrici, alle minacce dei bombardamenti, ai volti contratti, iniziava a penetrare in un angolo della mente, di tutti noi, sconvolti da ciò che stava accadendo. Nel mezzo dell’orrore e del dolore, ci eravamo già trasformati simbolicamente in quello stesso nemico estremista sotto assedio, nel nemico estremista che aveva distrutto l’impeccabile e leggendario ordine cileno e che bisognava eliminare per ripristinare la purezza originaria di una nazione contaminata.
In quell’11 settembre, anche prima di mezzogiorno, prima del bombardamento, la scenografia era già abitata da una serie di indizi geometricamente irradiati nella città. La forma della guerra si era consolidata in un palinsesto che non si poteva eludere. Il fascismo, percepibile solo in situazioni circoscritte, era diventato reale, era dappertutto, si propagava in una città attraversata da nuovi segni che inneggiavano a una rifondazione nazionale. Una rifondazione obbligatoria e selettiva che, per riuscire a portare a termine la sua impresa messianica, si concentrava ossessivamente sui corpi, ponendoli sotto la lente d’ingrandimento del potere militare.
A mezzogiorno La Moneda bruciava, letteralmente, tutti e quattro i lati, il bombardamento era terminato e la Casa del Governo era in fiamme. Il nuovo regime campeggiava sullo spettacolo dell’incendio, con i suoi annunci radio alla popolazione, asciutti comunicati che non davano informazioni ma notificavano lo sciame di misure e azioni con le quali si sarebbe vinta una causa già vinta a priori. Gli enfatici e, perché non dirlo, stridenti inni militari monopolizzavano le radio, evidenziando un potere patriottico capace di agglutinare definitivamente ogni mezzo.
La televisione, sotto vigilanza, ora trasmetteva solamente cartoni animati – che, nel bel mezzo del consolidamento di un autoritarismo estremo, non potevano essere letti con innocenza – così da bloccare in modo tragicomico, il fluire dell’informazione. Paperino e i suoi amici occupavano interamente gli schermi. In questo modo le immagini ufficiali di queste prime ore furono i cartoni che, insieme al pretesto di distrarre i bambini, davano conto di un progetto pedagogico, della volontà ironica di infantilizzare la popolazione o, in altri termini, dello sguardo gerarchizzante dei nuovi poteri che stavano emergendo, della loro volontà di mantenere i cittadini sotto controllo, come se fossero dei bambini, subordinati alle icone dei cartoni animati che, con le loro vocine stridule, alla fine di ogni episodio lanciavano una morale edificante.
In queste ore venne proclamato lo stato d’emergenza. In questo modo la città veniva privata dei suoi corpi, a eccezione di quello militare. Qualsiasi corpo che non corrispondesse al militare poteva essere assassinato perché la circolazione nella città era proibita: la città perdeva la sua funzione pubblica per convertirsi in un campo minato. Lo stato d’assedio generava un nuovo strappo che per diciassette lunghi anni rimase aperto, seppur con differenti modulazioni, dividendo, riterritorializzando lo spazio, separando radicalmente la distribuzione dei corpi tra dimensione pubblica e privata, tra dentro e fuori, tra sicurezza e pericolo.
Non si poteva uscire per strada, la cosa peggiore era che non si poteva abitare il fuori perché non ti apparteneva più, era stato espropriato del suo carattere comunitario. Il fuori, in altre parole, era diventato un territorio proibito, affidato alle figure di un’immaginazione che, in tali circostanze, poteva essere riempita unicamente con effigi di sangue e di guerra.
Durante alcune ore del pomeriggio, i cartoni animati lasciarono spazio a un breve e asciutto notiziario nel quale si annunciava che il presidente Salvador Allende era morto, si era suicidato all’interno del palazzo della Moneda, un’informazione sintetica, emessa con un tono di totale indifferenza, atto a politicizzare la nuova egemonia e presentare il dominio militare come assoluto e impenetrabile.
La televisione si sostituì alla radio che, tra un cartone e l’altro, divenne il territorio privilegiato degli annunci militari emanati dalla nuova Giunta Militare.
Gli annunci ammonivano a deporre le armi, esortavano i leader politici del governo della Unità Popolare a consegnarsi alle unità militari che si stavano insediando, facevano anche appello al patriottismo della popolazione, chiedendo di denunciare l’estremismo, una parola che avrebbe assunto un significato estensivo e generale nel nuovo lessico nazionale, un significato che, con il passare delle ore, assumeva connotazioni sempre più negative.
Verso sera, nel mezzo di una cronologia impazzita, fece irruzione sullo schermo televisivo la solennità dell’inno nazionale. L’inno nazionale divenne la cornice atta ad accogliere la Giunta Militare che avrebbe parlato, per la prima volta, al Paese che, in pratica, già governava dalle prime ore del mattino. Come in una delle scene centrali di un film dell’orrore, gli agenti delle quattro divisioni dell’esercito si presentarono davanti alle telecamere, seduti a un gigantesco tavolo, per il messaggio inaugurale del nuovo governo.
(mimesis-scenari.it)