Basta volgarità sulla storia del Risorgimento
Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha pronunciato un discorso all’Accademia Nazionale dei Lincei, durante un incontro, tenutosi il 9 febbraio, che ha ufficialmete aperto le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia.
Considerata la rilevanza dell’intervento del Capo dello Stato ne pubblichiamo un estratto, uscito ieri sul quotidiano “La Stampa”.
Il testo si sofferma sulla grande importanza del periodo storico del Risorgimento, confutando banali e sterili polemiche recenti, di scarso valore culturale, senza sminuire i limiti del processo di unificazione nazionale (come non ricordare, a tal proposito, il concetto gramsciano di “rivoluzione mancata”, che riprendeva pure il pensiero di Piero Gobetti sull’argomento), che si concluse nel marzo del 1861, e quelli dello Stato post-unitario.
Su quest’ultimo tema, tra i molti contributi, è opportuno richiamare quanto scrisse Ernesto Ragionieri su i “problemi dell’unificazione” (v. Storia d’Italia, XI, Einaudi, Torino, 1976, p.1668sgg.), che giunse a parlare di “debolezza” ed “isolamento sostanziale” “del gruppo che gestiva lo Stato nel primo periodo unitario”(p.1731); o, pure, le riflessioni di Giuseppe Galasso (in “Potere e istituzioni in Italia”, Einaudi, Torino, 1974) sulla contrapposizione tra “paese legale” e “paese reale” e “l’estraneità e la diffidenza delle masse per il nuovo Stato”, che “era conseguente all’assenza delle masse stesse dalla lottà per l’Unità” e “conseguenza inevitabile della struttura che si era data al Paese con i nuovi ordinamenti”(p.211).
Perciò, l’intervento del Presidente della Repubblica costituisce un notevole contributo che pone in risalto “l’eredità del Risorgimento” e dei suoi valori, la sua influenza sulla successiva storia d’Italia, nonostante le parentesi della dittatura fascista, e sull'”età della Costituente”; l’indispensabilità di “un nuovo impegno condiviso per suscitare una ben maggiore consapevolezza storica del nostro essere nazione e per irrobustire la coscienza nazionale unitaria degli italiani”.
di Giorgio Napolitano (La Stampa, 13/02/2010)
Con l’avvicinarsi del centocinquantenario si vedono emergere, tra loro strettamente connessi, giudizi sommari e pregiudizi volgari sul quel che fu nell’800 il formarsi dell’Italia come Stato unitario, e bilanci approssimativi e tendenziosi, di stampo liquidatorio, del lungo cammino percorso dopo il cruciale 17 marzo 1861. C’è chi afferma con disinvoltura che sempre fragili sono state le basi del comune sentire nazionale, pur alimentato nei secoli da profonde radici di cultura e di lingua.
E chi sostiene che sono state sempre fragili, comunque, le basi del disegno volto a tradurre elementi riconoscibili di unità culturale in fondamenti di unità politica e statuale. E c’è chi tratteggia il quadro dell’Italia di oggi in termini di così radicale divisione, da ogni punto di vista, da inficiare irrimediabilmente il progetto unitario che trovò il suo compimento nel 1861.
***
Noi abbiamo da fare come italiani il nostro esame di coscienza collettivo cogliendo l’occasione del centocinquantenario dell’Unità d’Italia. Possiamo farlo, non ignorando certo i modi concreti della nascita dello Stato unitario, le scelte che prevalsero nel confronto tra diverse visioni del percorso da seguire e dello sbocco cui tendere; non ignorando, anzi approfondendo i termini di quell’aspra dialettica, ma senza ricondurre ai vizi d’origine della nostra unificazione statuale tutte le difficoltà successive dell’Italia unita così da approdare a conclusioni di sostanziale scetticismo sul suo futuro.
Le delusioni e frustrazioni che furono espresse anche da figure tra le maggiori del moto risorgimentale, e che operarono nel profondo dei sentimenti e degli atteggiamenti popolari, hanno sin dall’inizio costituito un problema da affrontare guardando avanti. Questo fu, io credo, l’apporto del meridionalismo che – con Giustino Fortunato, e grazie anche a illuminati uomini del Nord – si caratterizzò come grande cultura dell’unitarismo critico, impegnata a indicare la necessità di nuovi indirizzi nella politica generale dello Stato nazionale la cui unità veniva però riaffermata categoricamente nel suo valore storico.
Certo, la frattura più grave di cui il nostro Stato nazionale ha fin dall’inizio portato il segno e che ha finito per protrarsi – nonostante i tentativi, benché non del tutto privi di successo, messi in atto a più riprese – e quindi restando ancor oggi cruciale, è quella tra Nord e Sud. E ho già detto in quali termini essa ci si presenti ora e ci impegni più che mai. Ma altre fratture originarie si sono ricomposte: come quella tra Stato e Chiesa, tra il nuovo Stato, che anche con il contributo degli uomini del cattolicesimo liberale nel corso del Risorgimento era stato concepito, e la Chiesa spogliata, perdendo Roma, del potere temporale. E, come ho notato nella prima parte del mio intervento, molte altre prove, anche assai dure, sono state superate con successo dalla comunità nazionale.
Sono convinto che nell’«età della Costituente», negli anni decisivi, cioè, della ricostruzione, su basi repubblicane e democratiche, del nostro Stato unitario, venne recuperata «l’eredità del Risorgimento», dissoltasi – secondo il giudizio di Rosario Romeo – nelle «vicende della prima metà del Novecento, con le due guerre mondiali e l’avventura totalitaria». In effetti, la fine dell’epoca dei nazionalismi dilaganti e dei conflitti da essi scaturiti, consentì la riscoperta di quell’identificarsi dell’idea di Nazione con l’idea di libertà che aveva animato il moto risorgimentale. L’idea di Nazione, il senso della Patria, attorno ai quali nella prima metà del secolo scorso gli italiani si erano divisi ideologicamente e politicamente, divennero nuovamente unificanti facendo da tessuto connettivo dell’elaborazione della Carta Costituzionale.
C’è da chiedersi quanto, da alcuni decenni, questo patrimonio di valori unitari si sia venuto oscurando – anche nella formazione delle giovani generazioni – e come ciò abbia favorito il diffondersi di nuovi particolarismi, di nuovi motivi di frammentazione e di tensione nel tessuto della società e della vita pubblica nazionale. E non possiamo dunque sottovalutare i rischi che ne sono derivati e che ci si presentano oggi, alla vigilia del centocinquantesimo anniversario dell’Unità.
È indispensabile, ritengo, un nuovo impegno condiviso per suscitare una ben maggiore consapevolezza storica del nostro essere nazione e per irrobustire la coscienza nazionale unitaria degli italiani. Dobbiamo innanzitutto – torno a sottolinearlo – attingere a una ricerca storiografica che ha dato, fino a tempi recenti, frutti copiosi e risultati di alto livello: come il fondamentale studio dedicato da Rosario Romeo a Cavour e al suo tempo. Uno studio dal quale emerge il ruolo preminente e innegabilmente decisivo dello statista piemontese, guidato dalla «convinzione che esistesse una sola nazione italiana e che essa avesse diritto a una propria esistenza politica»; il ruolo decisivo di quel Cavour grazie al quale, al Congresso di Parigi del 1856, per la prima volta nella storia uno Stato italiano aveva «pensato a tutta l’Italia» e «parlato in nome dell’Italia». Nello stesso tempo, è emersa ad opera degli studiosi tutta la ricchezza del processo unitario e degli apporti che ad esso vennero dai rappresentanti più alti di concezioni pur così diverse del movimento per l’Unità, come Cavour, Mazzini, Cattaneo, Garibaldi, che concorsero, dando vita allItalia unita, al maggior fatto nuovo nell’Europa di quel tempo.
Ebbene, è pensabile oggi un forte impegno per riproporre le acquisizioni della nostra cultura storica, relative a quel che hanno rappresentato il Risorgimento e la sua conclusione nella storia d’Italia e d’Europa? E per collegarvi una riflessione matura su tappe essenziali del lungo percorso successivo, fino alla rigenerazione unitaria espressasi nei valori comuni posti a base della Costituzione repubblicana? Dovrebbe essere questo il programma da svolgere di qui al 2011: un impegno che vogliamo considerare pensabile e possibile, anche perché ci sono nuove e stringenti ragioni per condividerlo.
La ragion di stato, in questo caso dello stato Sabaudo a scapito di quello Borbonico, ha prevalso su ogni remora che la moralità poteva suggerire.
La retorica volgare e falsa con cui i libri di storia hanno indottrinato le generazioni successive ha sempre nascosto l’atteggiamento imperialista dei Savoia ma anche dei cosidetti rivoluzionari repubblicani.
Ciò vale anche per l’inglobamento della Repubblica Ligure annessa con un provvedimento di imperio unilaterale, senza tenere in minimo conto della volontà della gente ligure, chiaramente ostile a tale soluzione, dimostrata chiaramente nei successivi moti di Genova del 1848, ove è stata dimostrata altresì la ferocia dell’esercito Sabaudo, perfettamente raffrontabile a tutti i regimi assoluti.
Se il presidente della repubblica giustifica tali orrori in nome dell’unità, deduco che dovrebbe giustificare anche l’atteggiamento di Hitler nei confronti dell’Europa,(in fondo propugnava anch’egli l’unità europea!!!!!) e considerare i partigiani alla stregua dei “briganti” del sud.
Ma ormai il tempo è trascorso, l’unica conseguenza rimasta è la persistenza di povertà rimasta al sud, dovuta principalmente alla rapina delle risorse perpetrate da Cavour, e l’ostilità nei confronti della Liguria da parte dello stato.
La ragion di stato, in questo caso dello stato Sabaudo a scapito di quello Borbonico, ha prevalso su ogni remora che la moralità poteva suggerire.
La retorica volgare e falsa con cui i libri di storia hanno indottrinato le generazioni successive ha sempre nascosto l’atteggiamento imperialista dei Savoia ma anche dei cosidetti rivoluzionari repubblicani.
Ciò vale anche per l’inglobamento della Repubblica Ligure annessa con un provvedimento di imperio unilaterale, senza tenere in minimo conto della volontà della gente ligure, chiaramente ostile a tale soluzione, dimostrata chiaramente nei successivi moti di Genova del 1848, ove è stata dimostrata altresì la ferocia dell’esercito Sabaudo, perfettamente raffrontabile a tutti i regimi assoluti.
Se il presidente della repubblica giustifica tali orrori in nome dell’unità, deduco che dovrebbe giustificare anche l’atteggiamento di Hitler nei confronti dell’Europa,(in fondo propugnava anch’egli l’unità europea!!!!!) e considerare i partigiani alla stregua dei “briganti” del sud.
Ma ormai il tempo è trascorso, l’unica conseguenza rimasta è la persistenza di povertà rimasta al sud, dovuta principalmente alla rapina delle risorse perpetrate da Cavour, e l’ostilità nei confronti della Liguria da parte dello stato.