Avrei fatto bene a leggere 100 volte di meno

di Antonella Barina

Ripubblicato I libri della mia vita di Henry Miller: confessioni e ricordi ricchi di provocazioni.

«Un libro abbandonato su uno scaffale è una munizione sprecata» scrive Henry Miller, lettore d’eccezione, che predilige leggere nelle situazioni più scomode. Come nei quattro anni in cui lavorò per un cementificio: «Nei viaggi di andata e ritorno dal lavoro lessi i libri più “pesanti”. In piedi, schiacciato da tutte le parti da pendolari come me. Durante questi tragitti sulla sopraelevata, non soltanto leggevo, ma imparavo a memoria lunghi passi di quei massicci volumi. Un prezioso esercizio nell’arte della concentrazione».

Divoratore di libri (e di vita), scrittore di potente forza d’urto, Miller si è sempre nutrito dei giganti della letteratura, da Sant’Agostino a Boccaccio a Dostoevskij a Joyce a Thomas Mann, ma anche di autori di nicchia, come l’eccentrico John Cowper Powys o il saggio Krishnamurti o l’avventuriero Blaise Cendrars… Annotando i volumi «smodatamente » (parola sua), trascrivendone interi brani, gridando ai quattro venti la scoperta di un’opera vitale. Con passione, con enfasi: «A volte, leggendo Cendrars, mettevo giù il libro per torcermi le mani dalla gioia, dall’angoscia o dalla disperazione».

Sono confessioni che emergono da I libri nella mia vita, ora riproposto da Adelphi (pp. 424, euro 24): un libro sui libri, sulle pietre miliari della propria formazione, in cui Henry Miller, più che parlare di testi letterari, svela se stesso, la sua visione del mondo, dall’adolescenza in strada sulle orme di Jack London alla giovinezza passata a compulsare enciclopedie e dizionari fino ai flirt con il pensiero orientale. Era il 1952 quando I libri nella mia vita uscì per la prima volta. Miller aveva 61 anni ed era ancora avvolto in un alone sulfureo: i suoi romanzi, Tropico del Cancro e Tropico del Capricorno in testa, pubblicati a Parigi negli anni Trenta, continuavano a essere censurati nell’America codina, che gli aveva affibbiato lo stigma di pornografo.

E anche stilando la lista dei cento libri che lo avevano influenzato di più, Miller si rivelava un campione della provocazione. «Bisognerebbe leggere sempre di meno, e non sempre di più. Lontano dall’aver letto quanto uno studioso, un topo di biblioteca o un uomo “colto”, tuttavia ho letto almeno cento volte di più di quanto avrei dovuto leggere per il mio bene». Perché conoscenza e saggezza sono nella vita vissuta; perché gran parte dei libri sono una perdita di tempo; perché la scuola produce «minchioni, pappemolli, bigotti, cieche guide di altri ciechi»… Anzi: «L’ultima cosa al mondo che consiglierei è che tutti debbano imparare a leggere».

Naturale che Miller diventasse un eroe della controcultura anni Sessanta-Settanta, influenzando Jack Kerouac, Norman Mailer, Paul Theroux. Icone come Bob Dylan e i Beatles. Oggi quella sua lotta all’ipocrisia e alla vergogna appare un po’ impolverata. Come la sua popolarità, costruita a fatica e balenata per un ventennio. Ma ben venga, in tempi di allineamento, la sua coazione ad andare controcorrente. E la sua graffiante ironia. Il libro ha un intero capitolo sull’assurdità di leggere al gabinetto: «Pensereste forse, per risparmiare tempo, di mangiare o di bere mentre siete seduti sul cesso?».

(“Il Venerdì”, “La Repubblica”, 20 giugno 2014)

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