Archeologia del politicamente corretto

di Arnaldo Testi

Dall’inizio degli anni 1990s, nel discorso pubblico americano, i termini «politically correct» e «political correctness» fanno parte del lessico politico-ideologico della destra. Definivano (e definiscono) idee, atteggiamenti, approcci culturali conformi a una supposta ortodossia progressista – radical o liberal che sia, senza distinzioni troppo sofisticate – che sarebbero promossi dalla egemonia della sinistra nelle istituzioni, nelle scuole, nelle università, nei mass media. Si tratta dunque di un insulto di parte, che denuncia sia la qualità del prodotto che la procedura per imporlo, che arriverebbe fino alla negazione della libertà di parola a chi non si adegua.

Alle origini, in effetti, la locuzione apparteneva alla sinistra. Era nata fra i comunisti degli anni 1930s, ed era rimasta nel linguaggio di alcune componenti della New Left negli anni 1960s, quando implicava essere in linea con una «giusta» interpretazione del mondo, marciare insieme con il Partito e con la storia. Negli anni 1970s cominciò a prevalerne, negli stessi ambienti di sinistra, un uso ironico e autoironico, magari in chiave un po’ elitaria e radical-chic: per dire, l’hamburger non è PC (un’altra sigla usata è p.c.), la rucola sì.

E’ negli anni 1980s che è diventata patrimonio di destra, nel clima di ripresa della cultura conservatrice sotto l’amministrazione Reagan, quando liberalism era diventata una parolaccia impronunciabile. Dal 1990 era entrata nell’uso corrente giornalistico. Alla fine di quell’anno il settimanale «Newsweek» gli dedicò una cover story dal titolo orwelliano di Thought Police, polizia del pensiero, psicopolizia. Cominciò a meritare anche l’attenzione della satira politica e di costume, che trovò argomenti su cui sbizzarrirsi soprattutto nel campo della «riforma» del lingua (i «diversamente vedenti» ecc.).

Al centro della diatriba sulla «correttezza politica» stavano alcune idee-chiave che avevano a che fare con i concetti di multiculturalismo, femminismo e gender theory, postcolonialismo e identity politics, e con le loro derivazioni teoriche e pratiche, in particolare per ciò che riguardava la ricerca e l’insegnamento delle scienze umane e sociali nelle scuole e nelle università, e le politiche di affirmative action. Intorno al 1990 la polemica di destra si concentrò sugli effetti di tutto ciò nelle istituzioni culturali, soprattutto quelle accademiche.

E gli effetti, si scrisse in una serie di saggi di grande successo editoriale e dai titoli accigliati, erano devastanti: la corruzione politica dell’istruzione superiore, la promozione di una generazione di rivoluzionari in cattedra privi di merito, la dittatura illiberale della virtù progressista sulle menti e sul linguaggio degli studenti, la chiusura della mente americana ai valori della cultura occidentale.

Multiculturalismo, diritti di gruppo, affirmative action e quant’altro, si disse, dividevano l’America e mettevano in discussione principi di civiltà, ragione, comune cittadinanza, eguaglianza di opportunità, avanzamento per merito, sui quali si è storicamente fondato il sogno americano. Sconvolgevano le basi del sapere, costringendo gli studenti a sostituire i classici del pensiero occidentale con le stupidaggini scritte, per dire, da femministe, magari nere, magari lesbiche – e accusando i dissenzienti di essere razzisti, maschilisti, etnocentrici. Insomma, i campus erano diventati, per citare il titolo di un articolo, «un’isola di repressione in un mare di libertà».

Il discorso fece abbastanza presa anche al di fuori dei campus e dell’area politica conservatrice. Tant’è che ci fu chi, nella pubblica piazza mediatica, in strada con i vicini di casa, al bar con gli amici, cominciò a definirsi con orgoglio «politicamente scorretto» – per presentarsi come spirito libero, coraggioso e dannatamente anti-conformista. Spesso solo per ripetere con gusto e un nuovo senso di impunità dei vecchi cliché etnici, razziali, di genere e di orientamento sessuale ampiamente diffusi nel sentire comune.

Non entro nel merito specifico di queste affermazioni, che erano parte di uno scontro politico-ideologico piuttosto acceso; fra l’altro, da allora, un po’ di acqua è passata sotto i ponti. Tuttavia, per metterle in prospettiva, vale la pena dare un’occhiata a un altro testo polemico di allora, The Culture of Complaint: The Fraying of America (1993) di Robert Hughes. Il libro ha avuto risonanza anche in Italia dove, grazie anche alla manipolazione del titolo (La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto, 1994) e della confezione editoriale (la citazione nel risvolto di copertina? «Tutto è stupro, fino a prova contraria»), se ne è sottolineata in maniera univoca la lettura anti-PC.

In realtà, Hughes è più equilibrato nell’analisi e più ecumenico nel suo sarcasmo. Attacca il «bigottismo progressista» di sinistra, quando è bigotto, ma apprezza la storia multiculturale che ha finalmente smesso di raccontare bugie su schiavi, neri, indiani, donne, e che consente di «imparare a vedere oltre i confini». Inoltre si scaglia contro il bigottismo conservatore: perché, dice, esistono «due p.c.», non uno solo. Anche la destra ha la sua forma di correttezza politica, e cioè il «patriotticamente corretto». I due p.c. si combattono fra loro, ma la rispettiva influenza è tutt’altro che paragonabile.

La sinistra è debole, dice Hughes, persino nei college. La sua pretesa egemonia è inesistente, la sua smania persecutoria (se esiste) inefficace. I docenti radical sono visibili nei dipartimenti umanistici delle università prestigiose, ma altrove sono appena tollerati o inesistenti. Chi detiene davvero il potere? La cricca militante dei «visigoti in tweed»? O i conservatori che dirigono gli istituti più influenti dalla Harvard Business School in giù? Per non parlare della vita politica in generale. «Anche la destra ha un interesse acquisito a tenere l’America divisa, una strategia che per la comunità civile promette assai peggio di qualunque cosa si possa rimproverare alla debole e circoscritta sinistra americana».

(www.leparoleelecose.it , 23 gennaio 2015)

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