Alexi Zentner e il lessico famigliare del potere bianco
di Guido Caldiron
L’America razzista dell’era Trump in «Il colore dell’odio», pubblicato da 66th and 2nd. Jessup, 17 anni, cresce in un ambiente proletario dominato dal suprematismo e da una fede fanatica
Cosa significa chiamare «papà» un nazista? Amare e condividere l’intimità degli affetti più cari, della casa, delle proprie paure, nutrire speranze e invocare protezione dalle avversità, guardare al futuro accanto ad un uomo che ha tracciato sul proprio corpo un affresco dell’orrore, lettere d’inchiostro che declamano l’intero vocabolario dell’odio razziale? «Sulla schiena, Santa chiesa dell’America bianca scritto intorno a una croce in fiamme, un’aquila di ferro completa di svastica in alto sulla spalla destra, i due fulmini a simboleggiare le SS sul pettorale sinistro e poco sotto, sul cuore, il motto del Ku Klux Klan per dio, la razza e la nazione».
Comprendere e raccontare cosa voglia dire voler bene e sentirsi «a casa» accanto a chi ha scelto di indossare come una seconda pelle simboli e slogan del razzismo più feroce, e di vivere un’intera esistenza in assoluta e delirante coerenza con quell’ideologia di morte, è il compito non certo agevole che si è dato Alexi Zentner con Il colore dell’odio (66thand2nd, pp. 336, euro 18, traduzione di Gaspare Bona). Attraverso la storia di Jessup, un diciassettenne cresciuto in una famiglia proletaria dello Stato di New York devota alle teorie del suprematismo bianco e a una fede religiosa fanatica segnata dai miti della razza e del sangue, Zentner descrive il quotidiano di quell’America intrisa di odio e violenza che le cronache illustrano ogni giorno con crescente inquietudine. Tra romanzo di formazione e, a tratti, quasi crime novel, l’autore nato in Canada ma da tempo negli Stati Uniti e che ha all’attivo già una mezza dozzina di titoli, non svolge solo un’indagine su un fenomeno reso ancora più visibile da questi anni di presidenza Trump, ma conduce attraverso lo sguardo di Jessup a interrogarsi sulla sua paradossale e terribile «normalità
Perchè il protagonista non conosce davvero altra dimensione nella quale è cresciuto e dove i riferimenti all’orgoglio per il colore della propria pelle, il «white pride» e alla «guerra santa razziale», si accompagnano alle difficoltà di ogni giorno, alla necessità per lui, studente del college di lavorare sodo per aiutare la famiglia, con la sola ambizione che il suo talento nel football gli apra la strada di qualche università. E, soprattutto, perché il lessico dell’odio appare a Jessup, per quanto almeno in parte si mostri recalcitrante a seguirne fino in fondo le idee, una sorta di senso comune famigliare, qualcosa che convive con le speranze di redenzione della madre, Cindy, a lungo in bilico sull’orlo di un bicchiere, o di David John, il suo secondo marito che lo ha allevato come se fosse il suo vero padre e del fratello Ricky, entrambi finiti in prigione a seguito di una rissa nella quale quest’ultimo ha ucciso un giovane nero che lo aveva minacciato a causa dei suoi tatuaggi neonazisti, e perfino della sorellina Jewel, non ancora adolescente e che nella Santa chiesa dell’America bianca è stata anche battezzata che si dice orgogliosa del fatto che nella sua famiglia tutti lavorino duramente, visto «che solo i negri vivono di sussidi». Al punto che se la speranza in un futuro migliore potrebbe spingere il ragazzo lontano da questo orizzonte dominato da una narrazione distopica intrisa di sangue e razza, un avvenimento tragico ma casuale che determina un punto di svolta nel romanzo, rischia invece di ricongiungerlo fino in fondo con la famiglia e la comunità razzista di cui fa parte, pronta ad offrire il proprio caloroso e vincolante abbraccio.
“Jessup– sottolinea Alexi Zentner – si misura con una sfida enorme di cui inizialmente non è neppure del tutto consapevole, vale a dire capire cosa significhi amare le persone che odiano. Il suo patrigno è un neonazista ma gli vuole bene, ha convinto sua madre a smettere di bere, ha portato stabilità alla sua vita. Non solo. Jessup gioca in una squadra con ragazzi neri, esce con la figlia del suo allenatore che è nera. Eppure, quando torna a casa, in famiglia si sente dire ogni giorno che i neri dovrebbero stare con i neri, gli ebrei con gli ebrei e, naturalmente, i bianchi con i bianchi».
Zentner spiega inoltre come il romanzo si interroghi su come i giovani possano aderire alle ideologie dell’odio. «Non volevo accontentarmi di un libro rassicurante che dicesse semplicemente “il razzismo è un male”, ma cercasse di capire come si può arrivare a pensarla in quel modo. I miei figli sono nati in una famiglia in cui gli è stato insegnato che la tolleranza è importante e che le persone che non assomigliano a loro non sono il nemico, ma non è il percorso di tutti: l’odio è qualcosa che si impara. Ma, fortunatamente è anche qualcosa che può essere disimparato».
Figlio di ebrei statunitensi trasferitisi in Canada e a lungo molto attivi nei movimenti antirazzisti, lo scrittore racconta di aver pensato a questa storia fin da ragazzo. «Quando ero al liceo – ricorda -, dopo anni di minacce, l’ufficio dei miei genitori, medici dei servizi sociali, è stato distrutto da un attentato incendiario compiuto dai suprematisti bianchi. In seguito un membro dell’Heritage Front (gruppo neonazista canadese, ndr) ha testimoniato che erano stati loro a compierlo. Ricordo di essermi chiesto, e lo faccio ancora quando accadono cose del genere o anche più gravi, com’è possibile che tu possa odiare qualcuno in quel modo, per il colore della sua pelle o la sua religione. Indagare il mondo che sta intorno a Jessup mi ha offerto qualche risposta in tal senso».
Nelle pagine di Il colore dell’odio la minaccia rappresentata dal suprematismo bianco è perciò evocata in maniera precisa nei suoi diversi aspetti. La Santa chiesa dell’America bianca alle cui funzioni partecipa la famiglia di Jessup ricorda così il circuito della cosiddetta Christian Identity che specie nelle aree rurali degli Stati Uniti propone da tempo una miscela velenosa di riscatto sociale e razzismo in base alla quale i bianchi sono stati soppiantati nel loto ruolo di «popolo eletto» che «il vero cristianesimo» saprà restaurare anche ricorrendo alla violenza estrema e alla «guerra razziale».
Accanto all’appello esplicito alla forza e al ricorso alle armi, alla caccia al cervo diffusa nella zona gli amici di David John, il patrigno di Jessup, preferiscono gli allenamenti al poligono, emerge però anche una strategia più sottile, la ricerca di un nuovo discorso pubblico razzista, ma almeno in apparenza maggiormente sofisticato che gli ambienti dell’Alt-right hanno definito e diffuso negli ultimi anni. Una tendenza che nel romanzo ha il volto di Brandon Rogers, brillante universitario locale esperto di media e dall’aspetto sempre ineccepibile che nei salotti dei talk-show, di fronte a quello che tutti immaginano come un «crimine d’odio» si erge a fustigatore del politicamente corretto, dei cliché progressisti cui fanno ricorso le autorità, parlando di «caccia alle streghe» contro degli onesti giovani bianchi. Mentre non mancano gli agenti che si mostrano irreprensibili in servizio ma la domenica affollano i banchi della chiesa razzista.
Sullo sfondo, il mondo «finito nel dimenticatoio» dei poveri bianchi, residenti in zone della Rust Belt, come l’immaginaria cittadina del romanzo, dove «il 35 per cento degli abitanti vive sotto la soglia di povertà» e abita come la famiglia di Jessup in case mobili che però, suggerisce il protagonista, «non andranno mai da nessuna parte». Luoghi devastati dalla crisi dove il rancore è servito, anche se non da solo, da benzina per il diffondersi dell’odio verso «quelli»: coloro dai quali David John mette in guardia costantemente Jessup: non solo i neri, le minoranze, gli ebrei, ma «l’élite liberale, gli intellettuali e gli accademici, i giornalisti bugiardi» e «tutti i politici che invitano i bravi americani a farsi strada rimboccandosi le maniche, senza mai chiedersi se ce le abbiano». Tutti coloro per i quali loro non sono altro che «spazzatura bianca».
Forse non a caso, sul New York Times Smith Henderson ha spiegato che Il colore dell’odio è uno dei rari romanzi che indagano il sinistro precipitare delle condizioni materiali, oltreché politiche e culturali, di una parte del proletariato bianco, paragonando piuttosto il libro a due recenti saggi, White Trash di Nancy Isenberg e The History of White People di Nell Irvin Painter. Anche se la sensazione è che il romanzo di Alexi Zentner affronti soprattutto senza moralismo e intenti tranquillizzanti uno degli aspetti più contraddittori e complessi dell’America odierna. Nel libro, il nome di Trump compare solo due volte, ma l’ombra oscura della sua presidenza è presente ovunque.
«Visto quello che è accaduto alla mia famiglia, potrei dire che le cose sono sempre andate così – conclude lo scrittore -. Ma questo significherebbe ignorare quanto velocemente e in modo brutale le idee della supremazia bianca vengano “normalizzate”. Sta accadendo ora e sta accadendo proprio qui».
(il manifesto.it , 9 ottobre 2020)