A proposito di Machiavelli e Marx

di Giorgio Cadoni

Sia Machiavelli sia Marx considerano la storia sociale solcata dal conflitto fra oppressori e oppressi. Ma tra i due pensatori sono anche importanti le differenze.

«Die Geschichte aller bisherigen Gesellschaft ist die Geschichte von Klassenkämpfen».

La storia di ogni società esistita fino a questo momento è storia di lotte di classi.

Nessuno avrà dimenticato le parole con cui inizia il primo capitolo del Manifesto del partito comunista, che, come tutti sanno, continua come segue: «Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con la trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta».

Anche chi, pur senza abbracciare la retorica dell’originalità, possieda la modesta esperienza storiografica necessaria per diffidare del «precursorismo», e tenersene lontano, non può non restare colpito, allorché, nel corso dei suoi studi machiavelliani, gli capita di riaprire il nono capitolo del Principe e di leggere la frase con cui l’autore inizia l’analisi del «principato civile»: «Perché in ogni città si truovano questi dua umori diversi: e nasce, da questo, che il populo desidera non essere comandato né oppresso da’ grandi, e e’ grandi desiderano comandare e opprimere el populo; e da questi dua appetiti diversi nasce nelle città uno de’ tre effetti: o principato o libertà o licenza». Frase la cui importanza risiede nel nesso che istituisce tra forma costituzionale dello stato e il conflitto tra i «dua umori» presenti in tutte le «città». Purtroppo, Machiavelli non svolge il tema a cui accenna l’ultima linea del passo citato, e prosegue spiegando perché l’unica scelta che consenta a colui che aspira al principato di fondare su una solida base il proprio potere sia quella filopopolare. Sicché resta solo da spiegare che il «principato» allude alla forma monarchica, la «libertà» a quella repubblicana, e la «licenza» alla dissoluzione dello stato così descritta da Discorsi I 2: «perché subito si venne alla licenza, dove non si temevano né gli uomini privati né i publici; di qualità che, vivendo ciascuno a suo modo, si facevano ogni dì mille ingiurie»; situazione il cui ultimo risultato non può essere che la «comune rovina delle classi in lotta» (non, certo, il marxiano «superamento» dello stato). Chi, deluso, decida di tornare al commento liviano vi troverà una concezione della società e della storia che, a prima lettura, gli apparirà, per certi versi, simile a quella del filosofo di Treviri nonostante i tre secoli che li separano e i radicali mutamenti intervenuti nel contesto economico, politico e sociale in cui ciascuno di essi ha pensato e operato. Non meraviglia che Machiavelli si occupi intensamente del conflitto sociale, tema ampiamente trattato dagli antichi autori; ma desta qualche sorpresa, e particolare interesse, constatare con quanta decisione egli lo ponga al centro della politica e della storia. Per il grande segretario, infatti, ogni società è inevitabilmente divisa in due classi antagoniste, si tratti, a seconda delle epoche, dei patrizi e dei plebei o dei «grandi» e del popolo, come, per Marx, la società moderna lo è in borghesi e proletari; cioè, per entrambi, in oppressori e oppressi, poiché la classe dominante si sforza costantemente di consolidare ed estendere i propri privilegi sottoponendo i dominati a una dura oppressione, alla quale questi possono sottrarsi soltanto per mezzo di una lotta incessante, della quale, come Marx, anche Machiavelli mette in chiara luce l’indubbia positività. Infatti, a suo avviso, benché fosse impossibile negare che la lotta delle classi è stata causa di rovina (ché tale è ritenuto dall’autore del Principe il passaggio di Roma dalla Repubblica all’Impero), la storia della Repubblica romana ‒ considerata da Machiavelli un paradigma ideale che consentiva di comprendere le cause della triste condizione in cui giacevano l’Italia e Firenze in particolare ‒ aveva dimostrato come, per più di tre secoli, fosse stato possibile fare della lotta tra la plebe e la nobiltà senatoria uno strumento di «libertà», e per conseguenza di stabilità e di forza. I testi sono noti, ma non sarà forse giudicato pleonastico citarne almeno un passo, tratto dal quarto capitolo dei primo libro dei Discorsi: «Io dico che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma, e che considerino più a’ romori ed alle grida che di tali tumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quelli partorivano; e che e’ non considerino come e’ sono in ogni republica due umori diversi, quello del popolo, e quello de’ grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà nascano dalla disunione loro, come facilmente si può vedere essere seguito in Roma; perché da’ Tarquinii ai Gracchi, che furano più di trecento anni, i tumulti di Roma rade volte partorivano esilio e radissime sangue». Si sarà notato come il passo sottolinei con polemico vigore il carattere moderato del metodo di lotta adottato dalla plebe, anche se è abbastanza evidente lo sforzo polemico, in parte contraddetto da altri passi. Diversamente da Marx, che quando redigeva, con Engels, il Manifesto del partito comunista, era convinto che fosse giunto il momento in cui la lotta delle classi avrebbe acquisito la violenza necessaria per abbattere lo stato costruito dalla borghesia sulle rovine della società feudale, e liberare così la nuova forma di organizzazione sociale imprigionata nel seno della società capitalista, Machiavelli, che scriveva quando lo stato borghese stava faticosamente emergendo, assegna al conflitto sociale il compito di adeguare alle nuove esigenze che esso reca di volta in volta alla luce le istituzioni dello stato, evitando nel medesimo tempo di sconvolgere le basi su cui poggia. A tal fine, era necessario che la lotta delle classi conservasse la sostanziale moderazione di cui si è detto; e la «creazione» del tribunato della plebe acquisiva, in questo quadro, valore esemplare, mostrando come trasferire sul piano istituzionale e legale lo scontro delle classi, affinché i «tumulti» popolari, che non per questo erano cessati, potessero raggiungere lo scopo mediante la conclusione di un accordo. Il limite di questa teoria era costituito dalla constatazione che quando oggetto della contesa era divenuta l’appropriazione della ricchezza, la sua violenza aveva rotto gli argini in cui era stata fino allora contenuta e dato inizio alla guerra civile che aveva distrutto la Repubblica. Sicché se ne ricava che non appena il conflitto sociale assume il carattere che, secondo Marx, esso sempre possiede, quale che sia la nebbia ideologica che lo occulta, lo sforzo compiuto per farne strumento di positiva evoluzione delle istituzioni statali deve essere considerato, secondo l’analisi machiavelliana, del tutto impotente; talché, lungi dall’aprire la via verso una forma di organizzazione sociale in grado di assicurare l’autentica libertà ̶ resa per la prima volta possibile dall’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione ̶ la violenza del conflitto segna la fine del «vivere libero», che l’antico segretario identifica con la partecipazione del popolo alla gestione del potere politico.

Il repubblicano Machiavelli non poteva tuttavia rassegnarsi all’idea che le libere repubbliche non potessero evitare di precipitare nella «servitù»; e, avendo osservato, in Discorsi I 37, che «la Nobilità romana sempre negli onori cede sanza scandoli straordinari alla plebe», sebbene ben diverso sia stato il suo comportamento «come si venne alla roba», ritenne di poter risolvere il problema raccomandando alle «republiche bene ordinate» di «tenere ricco il publico e gli loro cittadini poveri», in maniera che, concentrata nelle mani dello stato, la ricchezza (procurata dalle conquiste) non divenisse motivo di contesa. Fino a che punto il filosofo credesse nell’applicabilità di questa direttiva diviene tuttavia assai incerto, quando si legge ciò scrive verso il termine del capitolo. Questo non significa che egli giunga a rovesciare il giudizio che aveva dato del conflitto sociale, e decida di passare dalla parte dei «molti» che ritenevano necessario fare ogni sforzo per evitarlo conferendo alle istituzioni repubblicane carattere nettamente aristocratico. Spiega invece che «gli è tanta l’ambizione de’ grandi, che se per varie vie ed in vari modi ella non è in una città sbattuta, tosto riduce quella città alla rovina sua». Pertanto, Roma sarebbe stata ridotta molto prima «in servitù»», se la contesa agraria e le altre rivendicazioni della plebe non avessero «sempre frenato l’ambizione de’ nobili». Il ragionamento sottostante è quello svolto nei precedenti capitoli 4-6 e nello stesso capitolo trentasettesimo di questo primo libro dei Discorsi: la libertà fa dei cittadini dei validi combattenti, che consentono alla repubblica di passare di conquista in conquista, come deve fare ogni stato che non si rassegni ad essere conquistato; la conquista si traduce in rapido aumento di ricchezza, e la lotta che si accende per il suo possesso consente ad un capo abile e ambizioso di prendere il potere. Dopo alcuni secoli di potenza e di gloria, la rovina delle istituzioni repubblicane è dunque, nel tempo lungo della storia, inevitabile. E la pace sociale, consentendo ai dominanti di realizzare tutti i loro oppressivi propositi, non farebbe che anticiparla. Del resto Machiavelli aveva spesso sottolineato i limiti della praxis insistendo sul ruolo della «fortuna», delle circostanze che determinano il successo, o l’insuccesso, delle imprese degli uomini e degli stati, quale che sia la «virtù» degli agenti. Non è il caso di affrontare qui la questione. Ma si veda nel venticinquesimo capitolo del Principe come l’autore si sforzi inutilmente di disegnare i limiti del campo d’azione della «fortuna» e della «virtù». Problema simile a quello che deve affrontare il lettore di Marx di fronte a passi di tono nettamente deterministico, che certuni cercano di conciliare con l’autentico pensiero del filosofo con la mediocre teoria dell’accelerazione di ciò che comunque accadrebbe. La sua filosofia non consentirebbe a Marx di supporre che la lotta delle classi possa avere termine prima che i produttori associati pongano fine alla «preistoria» dell’umanità; ma se gli chiedessimo di supporlo, ci risponderebbe che in tal caso le contraddizioni del capitalismo diverrebbero talmente acute da condurci verso una nuova forma di barbarie. Siamo sicuri che non stia avvenendo? O, con buona pace del grande Machiavelli, che non dall’esasperazione del conflitto sociale, ma dalla sua sospensione possa trarre origine il «governo di uno»?

(lrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it , 7 agosto 2020)

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