Cronache d’autore per Paolo VI in Terra Santa. The plane, the plane!
Inviato speciale del «Corriere della Sera», Dino Buzzati seguì nel 1964 il viaggio di Paolo VI in Terra Santa. I suoi servizi sono stati raccolti nel libro Con il Papa in Terrasanta (a cura di Lorenzo Viganò, Milano, Henry Beyle 2014, pagine 131, Copyright Eredi Dino Buzzati. Tutti i diritti riservati trattati da Agenzia Letteraria Internazionale, Milano). Pubblichiamo brani dagli articoli usciti sul quotidiano del 20 dicembre 1963 e del 5 gennaio 1964.
Cronache d’autore per Paolo VI in Terra Santa.
Con la sola forza dello spirito. Il mondo sbalordito e commosso trattiene il respiro
L’ottava crociata sta per partire ma il porto è deserto, non ci sono galere e galeazze, non si vedono corazze né cavalli né archibugieri né fanti, le banchine sono deserte, il porto non esiste. Eppure la ottava crociata della storia comincia. La crociata è fatta da un uomo solo, l’erede di Pietro, il vescovo di Roma, un uomo non vecchio ma già avanti negli anni, dalla faccia intensa e scavata, che senza navi, né eserciti, né principi, né ammiragli va da solo a liberare il Sepolcro di Cristo.
Lo accompagnano dignitari e prelati, una bene organizzata corte lo segue, ma per combattere questa corte non serve, è come se non esistesse. L’uomo è davvero solo, Sua Santità è spaventosamente sola mentre spicca il volo a bordo del quadrigetto in direzione dell’oriente per andare a liberare il Sepolcro di Cristo. E il mondo intero lo guarda. Attraverso la televisione, la radio e i giornali, gli uomini di ogni continente, cristiani e non cristiani, lo seguono, e sospendono il fiato abbacinati dalla grandezza della battaglia.
Contro chi va a misurarsi l’uomo vestito di bianco che non porta la croce sulla spalla destra come Goffredo di Buglione bensì la porta sul petto? I ricognitori hanno esplorato Gerusalemme e i Luoghi Santi, non hanno visto traccia di turchi, di mori, di saraceni, di infedeli; non un turbante, non una scimitarra, non un ordigno di tortura, non fumi di accampamenti, non assembramenti di giannizzeri: tutto può sembrare rassicurante e pacifico. Tuttavia questa crociata lampo, a ottocento e più chilometri all’ora, va incontro a un nemico più duro e pauroso del feroce Saladino. Esso sbarra la via al Sepolcro di Cristo, alla culla del Bambino Gesù, alla strada che Cristo percorse sotto il peso della croce, al monticolo dove la croce venne innalzata e dove Cristo fu crocefisso. Chi è dunque il nemico?
Il maledetto nemico, al paragone dei quali i tetri e crudeli tiranni dell’Asia sono tenere pecorelle, il nemico, oggi, siamo noi che ci siamo stancati di credere.
Il progresso, la tecnica, la scienza, il furore della vita, l’indifferenza, l’apatia, il vuoto, la morte lenta degli animi hanno innalzato intorno al Sepolcro di Cristo una gelida muraglia e l’uomo partito da Roma vi si avventerà contro per squarciarla. Mai da che è cominciato il mondo, si è vista una simile sfida.
Ma dove sono i cannoni, le spingarde, gli attrezzi d’assedio, le polveri, la pece ardente? Niente. L’uomo che parte da Roma non è armato di eserciti e di morte. La sua forza, con la quale confida di vincere, è fatta di una cosa che non si vede e non si tocca, una cosa oggi comunemente derisa e non quotata in borsa: lo spirito.
Le sue artiglierie sono fatte di spirito, di spirito semplicemente sono fatte le sue catapulte, i suoi arieti, i suoi meccanismi di battaglia. Ed egli non parte col petto in fuori coperto di armature d’argento, egli parte col capo chino, in umiltà.
Attonito, il mondo ristà a guardare questo incredibile duello tra l’uomo armato solo di luce, di mansuetudine e di bontà, e il ghiaccio spirituale degli uomini di oggi, che purtroppo è una forza spaventosa. Il mondo sbalordito e commosso, trattiene il respiro. Chi vincerà?
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The plane, the plane!
Chi reca quassù in questo riposto e abbastanza misterioso angolo di mondo, il quadrigetto bianco che sibilando si posa con estrema dolcezza sul pavimento dell’aeroporto di Amman? Siamo qui in centinaia, in migliaia anzi, perché al di là degli sbarramenti e delle terrazze dell’aerostazione, una variopinta folla si pigia, siamo qui in centinaia a bocca aperta, come se dovesse essere scoperta l’America o conquistata la Luna. E invece è un Dc-8 come tanti altri, con dentro un uomo, come noi, pur se vestito di bianco. Che strano.
Invece strano non è. La faccenda merita una attenzione tremenda. Noi stiamo assistendo a uno dei fatti più commoventi della storia. Così commovente e intimo che sarebbe stato meglio se fosse avvenuto all’improvviso in segreto, senza questo clamore, senza queste turbe di giornalisti, senza telecamere. Questo sì.
Se il Papa viene per la prima volta da che esiste la Chiesa, viene in pellegrinaggio alla terra dove la Chiesa fu creata. Certo è così. Eppure a me sembra ci sia ancora di più. «The plane, the plane», esclama improvvisamente al mio fianco un collega americano, piccolo e grassoccio, con tre macchine fotografiche a tracolla, che fino adesso ha tremato dal freddo, vestito come è di una giacchetta di tela turchina. Fa segno a mezz’aria, laggiù a sud-ovest, verso le aride e fulve lontananze: verso il brumoso sipario di nebbia.
Un accenno di trepidazione. Che ha visto, che ha udito il collega americano, il quale continua a sorridere apparentemente pago e felice nonostante il freddo? Tutti guardiamo nella stessa direzione, c’è anche uno fornito di binocolo: niente. Il cielo non si vede. La cupola di grigia bruma è silenziosa. Un poco mortificato il simpatico americano abbassa il braccio lentamente.
La scena è pronta intorno a me, la scena per il fatto più fantasioso e straordinario di questi anni, finalmente un fatto grandissimo che non significhi morte, disastri, devastazioni, lutti, ma non è la scena che si sperava. Sembra di essere su un altipiano delle nostre montagne in un giorno di novembre. Nebbia, vento, freddo. Quando leggerete queste righe la scena l’avrete già vista tutti per televisione. Saprete già il posto, gli uomini, le uniformi, le bandiere, le macchine. Ma il video non potrà dirvi, probabilmente, ciò che sta accadendo nel disadorno aeroporto di Amman, prima ancora che lui sia arrivato. È una cosa difficile da esprimere, le parole è tanto facile che qui si trasformino in retorica. (…)
«The plane, the plane» esclama ancora il collega americano. E alza il braccio come prima e come prima tutti insieme guardiamo dalla stessa parte, ma adesso non c’è più trepidazione, sappiamo tutti che questa è la volta buona e tutto, come sempre nelle cose grandi, succede semplicemente, con le apparenze innocue di una consueta realtà: così durante i bombardamenti, quando da lontano si vedeva scoppiare una bomba e tutto poteva sembrare un giochetto e non si capiva finché non vedevamo i morti.
Il quadrigetto percorse fino in fondo la pista, quindi fece ritorno lentissimo, girando a semicerchio verso l’aerostazione. Da dietro il muricciolo parte il primo dei ventun colpi di cannone. Il jet adesso era fermo dinanzi a noi a una cinquantina di metri. Il suo sibilo sordo cessò.
Mentre l’aereo del Pontefice si avvicinava ad Amman, re Hussein, preoccupato delle condizioni del tempo e del persistere della nebbia, è salito sulla torre di controllo dell’aeroporto, ha preso il microfono e ha personalmente parlato con il pilota del Dc-8, guidandone l’atterraggio.
A me sembra che questo viaggio faccia tanta impressione per il motivo seguente. Il Papa come Papa a un certo momento passa in seconda linea. È Gesù dopo duemila anni che ritorna alla terra sua. È il Papa, suo vicario, che lo porta con sé. Perché Dio è in ciascuno di noi, forse, ma non c’è nessuno in cui ci sia tanto Dio come nel Papa. Il Papa è una sua vivente abitazione.
(“L’Osservatore Romano”, 23 maggio 2014)