17 marzo. Quando il Paese si divide sulla festa dell’Unità d’Italia

Il viale visto dal balcone del Municipiodi Carlo Galli

Il 17 marzo 1861 il parlamento sabaudo proclamò Vittorio Emanuele II re dell´Italia unita. Oggi, la destra al governo – assai diversa da quella, guidata da Cavour, che governava allora – ne fa una festa nazionale, in occasione del 150° anniversario dell´unità del Paese. Il provvedimento, in sé non sbagliato, suscita però l´aspra polemica dei leghisti e dei sudtirolesi – i primi lo contestano su base politica, discutibile, e finanziaria (mancherebbe la copertura economica della legge); i secondi su presunta base nazionale (austriaca), assurda e inammissibile (come ha detto il Capo dello Stato) –. Ma soprattutto il provvedimento incontra l´ostilità manifesta del mondo imprenditoriale, preoccupato perché un giorno di festa in più sarebbe un colpo per il nostro già disastrato Pil. Di qui, le proposte intermedie di farne una “solennità”, il che renderebbe possibile lavorare e studiare, in clima, però, patriottico (ma la legge è legge, ormai) –. La verità è che membri importanti delle élites del Paese non sanno più distinguere la politica dall´economia e, uomini a una dimensione, riducono la prima alla seconda, ignari del fatto che una società non è solo un insieme di produttori, ma è una storia, una consapevolezza, una – per quanto ambigua sia la parola – identità, che ha bisogno di legittimarsi anche nel profilo simbolico.
A questo, infatti, servono le feste politiche. A far sì che una città, uno Stato, celebrino se stessi, e si ritrovino in un´unità partecipata e, appunto, simbolica, in una giornata speciale, ufficiale e solenne, che s´innalza sulla quotidianità banale e dispersiva. Fiammata di energia, costruzione di forme simboliche che incorporano passioni collettive e danno loro una direzione concorde, la festa celebra – di volta in volta, nei diversi Paesi – nascite, fondazioni, secessioni, liberazioni, costituzioni, rivoluzioni. Cioè le date che scandiscono una vicenda collettiva, e che nella festa diventano occasione di pubblica felicità.
Le feste civili sono sempre religiose, in modo esplicito o implicito: l´atto di concentrare l´amore di tutti per la città e la partecipazione di tutti alla sua vita e alla sua fortuna è un atto religioso; di “religione civile” – che si esprime in parate, in monumenti, in discorsi – in cui l´appartenenza alla comunità politica si fa cosciente atto di immedesimazione dei singoli in una storia, e di adesione alle leggi comuni; o di ‘religione´ – senza aggettivi – in quelle realtà politiche pagane in cui la politica era intessuta e scandita dalla continua presenza del sacro, in cui l´immagine che la città si faceva di se stessa era senz´altro divina.
A esempio della festa come religione civile possiamo prendere il 4 luglio americano, il 14 luglio francese, il 25 aprile (o il 2 giugno) italiano; le grandi ricorrenze in cui una nazione concentra le ragioni della propria esistenza, le rende pubbliche e visibili – proprio a fondare e a consolidare la propria sfera pubblica –, e, compiacendosene, le rinnova e le rinvigorisce. La festa pagana come atto a un tempo veramente politico e veramente religioso è invece esemplificata nelle decine di feste che costellavano l´anno civile e liturgico di Atene e di Roma; la più emozionante, la più cara all´immaginazione di ogni occidentale è la festa delle Panatenee, cioè la processione – uomini, donne, cavalieri, guerrieri, cittadini – che si snoda per i quartieri di Atene e che culmina nel tempio di Atena sull´Acropoli: tutta la città raccoglie se stessa e si offre a se stessa in forma di divinità, senza nulla perdere della propria umanità. E, per di più, questa rappresentazione collettiva della città prende forma e figura non solo nella liturgia di un giorno, ma nel marmo eterno del fregio di Fidia. Una rappresentazione della rappresentazione di vertiginoso ardimento e di ineguagliato pathos espressivo. Se una festa politica esprime la felicità pubblica, in questo caso quella felicità è ulteriormente espressa nella bellezza. E infatti feste e bellezza sono tra i caratteri fondamentali – insieme all´uguaglianza e all´equilibrio tra pubblico e privato – della democrazia ateniese, come viene celebrata da Pericle, nel racconto di Tucidide.
La festa, la felice auto-rappresentazione collettiva, può nascere dal basso – può cioè essere repubblicana, democratica – ma anche può essere promossa dall´alto; nella sua fase barocca, lo Stato moderno, impersonato dal monarca assoluto, ha glorificato se stesso – a partire soprattutto da Luigi XIV di Francia – con feste di corte, ma anche pubbliche, rivolte alla eroicizzazione del re in una sintesi di spettacolarità, mondanità e macchinosità che rende evidente che l´essenza della festa è celebrare un´unità politica. La rivoluzione con le sue numerose feste politiche volle far sì che i cittadini non fossero spettatori della festa, ma attori e protagonisti, e che la felicità del re si mutasse nella felicità della Francia.
Naturalmente, non bastano le feste a generare la pubblica felicità; né la commemorazione di un evento lo rende di per sé buono; ne sanno qualcosa gli infelici cittadini dei regimi autoritari e totalitari, generosi di feste quasi quanto di prigioni. Ma, d´altra parte, l´incapacità di comprendere che la politica passa anche attraverso la dimensione della festa, sobria e spettacolare al tempo stesso, è il segno di una mancanza: di un deficit di felicità, ma anche di spirito di cittadinanza e, dopo tutto, di autostima collettiva.

(“La Repubblica”, 17 febbraio 2011 pag.54)

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